giudicato implicito sulla questione pregiudiziale di giurisdizione
(Cass. Civ., Sezioni Unite 9 ottobre 2008, n. 24883)
Il modo di intendere la giurisdizione, come potere riservato ad un giudice (ordinario ovvero amministrativo) di decidere su una controversia, esprimeva l’idea di una giustizia che si attua all’interno di “comparti” riservati a giudici “diversi”. Il ribaltamento del rapporto potere – cittadino, con la costituzionalizzazione del principio del giusto processo, porterà la Cassazione a ridefinire la giurisdizione come un diritto del cittadino più che come un potere riservato ad un giudice, chiamato adesso a rendere un servizio, ossia giustizia, in modo effettivo. Di questo mutato modo di concepire la giurisdizione sono testimonianza le pronunzie sulla translatio iudicii (Cass. Civ., Sezioni Unite, 22 febbraio 2007, n. 4109), sul giudicato implicito sulla questione pregiudiziale di giurisdizione (Cass. Civ., Sezioni Unite 9 ottobre 2008, n. 24883) e sulla pregiudiziale amministrativa (Cass. Civ., Sezioni Unite, 23 dicembre 2008, n. 30254).
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARBONE Vincenzo - Primo Presidente -
Dott. VELLA Antonio - Presidente di sezione -
Dott. VIDIRI Guido - Consigliere -
Dott. MERONE Antonio - rel. Consigliere -
Dott. SALME' Giuseppe - Consigliere -
Dott. RORDORF Renato - Consigliere -
Dott. LA TERZA Maura - Consigliere -
Dott. AMOROSO Giovanni - Consigliere -
Dott. TIRELLI Francesco - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro
tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,
elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso
l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope
legis;
- ricorrenti -
contro
FONDAZIONE OPERA (OMISSIS) - ONLUS, in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
ANTONIO BERTOLONI 29, presso lo studio dell'avvocato PETTINATO Salvo,
che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato NICOLA CANESSA,
giusta procura speciale del notaio Dott. Paolo Giunchi di Cesena,
rep. 156589 del 16/05/07, in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 72/04/05 della Commissione Tributaria
regionale di BOLOGNA, depositata il 09/07/05;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
20/05/08 dal Consigliere Dott. Antonio MERONE;
uditi gli avvocati Daniela GIACOBBE dell'Avvocatura Generale dello
Stato, Salvo PETTINATO;
udito il P.M., in persona dell'Avvocato Generale Dott. NARDI
Vincenzo, che ha concluso, previa declaratoria, in via preliminare,
della giurisdizione del Giudice tributario e del difetto di
legittimazione attiva del Ministero delle Finanze, rigetto, nel
merito, del ricorso.
FATTO
FATTO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DEL RICORSO
1.1. La Fondazione Opera (OMISSIS) ha impugnato, dinanzi alla Commissione
tributaria provinciale di Bologna, il provvedimento con il quale l'Agenzia delle
Entrate (nonostante il parere contrario espresso dall'Agenzia delle ONLUS) ha
disposto la cancellazione della fondazione stessa dall'Anagrafe Unica, di cui al
D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 11, essendo emerso, a seguito di verifica, che
l'attività svolta non era diretta a favore di soggetti anziani in condizioni di
assoluto e grave disagio e che mancava la condizione del perseguimento esclusivo
delle finalità di solidarietà sociale di cui al citato D.Lgs. n. 460 del 1997,
art. 10, comma 1, lett. b).
A sostegno dell'originario ricorso, la Fondazione eccepiva:
a) che ai sensi del D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 10, comma 1, lett. a, nn. 1, 2
e 4, le ONLUS sono tali se svolgono attività di assistenza sociale e
socio-sanitaria, a prescindere dalle condizioni di svantaggio dei destinatari
delle stesse, purchè sussista il fine solidaristico;
b) che l'attività svolta dalla Fondazione è rivolta a persone anziane, le quali
per condizioni psicologiche, familiari e sociali o per particolari esigenze di
assistenza hanno difficoltà a rimanere nel proprio nucleo familiare e che le
prestazioni sono erogate da strutture che operano in regime di convenzione con
l'Azienda USL di (OMISSIS), consentito soltanto per "attività di assistenza
sociale e socio-sanitaria";
c) che, comunque l'Agenzia delle Entrate non aveva tenuto conto del parere
contrario alla cancellazione, espresso dall'Agenzia per le ONLUS. La CTP ha
accolto il ricorso e la Commissione tributaria regionale dell'Emilia Romagna ha
rigettato l'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate.
2. Avverso quest'ultima decisione propongono ricorso per cassazione il Ministero
dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia delle Entrate, i quali denunciano:
a) il difetto di giurisdizione del giudice tributario, adito in violazione del
D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 2 e 19, in quanto il provvedimento di
cancellazione della Fondazione dall'albo delle ONLUS non rientra tra quelli
espressamente indicati dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, e non attiene ad un
rapporto tributario, ma incide sullo status giuridico complessivo dell'ente, al
quale sono collegati anche, ma non solo, effetti fiscali che, comunque, nella
specie non sono in discussione;
b) la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 460 del 1997, artt. 10 e 11,
anche sotto il profilo del vizio di motivazione, in quanto erroneamente la CTR
ha ritenuto che la solidarietà sociale può manifestarsi anche nei confronti di
persone benestanti, che hanno bisogno di assistenza per le più disparate
situazioni personali di disagio (che non siano perciò necessariamente di natura
economica), considerando irrilevanti le circostanze;
- che gli ospiti delle strutture gestite dalla fondazione erano tenuti a pagare
una cospicua retta per il loro mantenimento, senza alcun ausilio pubblico;
- che gli utili realizzati non venivano utilizzati per abbattere il costo delle
rette;
- che la fondazione aveva partecipato alla costituzione di una società
commerciale (s.r.l.).
La Fondazione resiste con controricorso con il quale eccepisce il difetto di
legittimazione attiva del Ministero dell'Economia e delle Finanze, la tardività
della eccezione di difetto di giurisdizione del giudice adito e la
inammissibilità del secondo motivo, inteso ad ottenere una diversa valutazione
dei fatti già esaminati con congrua motivazione dai giudici di appello. Nel
merito deduce che la circostanza che l'attività veniva svolta con criteri di
economicità e che da essa derivassero avanzi di gestione era irrilevante, perchè
il fine di lucro non si identifica con l'economicità della gestione.
Con ordinanza del 27 luglio 2007, la quinta sezione civile di questa Corte, alla
quale il ricorso è stato originariamente assegnato, rilevata la sussistenza di
una questione di giurisdizione, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente, per
l'assegnazione a queste SS.UU..
Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
DIRITTO
DIRITTO E MOTIVI DELLA DECISIONE
2.1. Preliminarmente, va dichiarato inammissibile il ricorso del Ministero
dell'Economia e delle Finanze, che non era parte nel giudizio di appello (Cass.
SS.UU. 3116/2008, 3118/2008).
2.2. Ancora in via preliminare, bisogna esaminare la questione di giurisdizione,
sulla quale la giurisprudenza di merito, in assenza di pronunce di questa Corte,
appare oscillante (propendono per la giurisdizione del giudice amministrativo:
TAR Emilia Romagna, sez. Parma, 22.3.2004; idem 13.12.2005, nn. 577 e 552, TAR
Lazio, sez. 2^, 16.11.2004, n. 13087; propendono per la giurisdizione del
giudice tributario: TAR Sicilia Palermo, sez. 1^, 9.7.2007, n. 1772, TAR Marche
14.4.2004, n. 169, CTP Ancona, sez. 3^, 27.9.2004, n. 106, CTR Lombardia, sez.
19^ 28.2.2007, n. 13). Ancor prima, però occorre pronunciarsi sulla
ammissibilità della eccezione di difetto di giurisdizione del giudice
tributario, sollevata da una parte (l'Agenzia delle Entrate) la quale,
soccombente in primo grado, ha appellato la sentenza di merito senza nulla
eccepire circa la potestas iudicandi del giudice che l'ha pronunciata, essendosi
limitata a contestare la sussistenza dei requisiti necessari per l'iscrizione
della fondazione nell'albo delle ONLUS. E' noto, però, che l'art. 329 c.p.c.,
comma 2, dispone che "L'impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti
della sentenza non impugnate". Se i giudici tributar avessero espressamente
affermato la propria giurisdizione (su istanza di parte o di ufficio)
contestualmente alla decisione di merito, la mancata impugnazione della relativa
statuizione, avrebbe determinato l'effetto dell'accettazione della stessa da
parte dell'appellante e/o del passaggio in giudicato (esplicito) del relativo
capo della sentenza con l'effetto preclusivo di cui all'art. 324 c.p.c.,
nonostante il disposto dell'art. 37 c.p.c., comma 1, in forza del quale "Il
difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica
amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque
stato e grado del processo".
Infatti, a partire da Cass. SS.UU. 28.4.1976 n. 1506, (anticipata da Cass. sez.
1^, 8.9.1970 n. 1298, sulle orme di Cass. SS.UU. 22.7.1960 n. 2084) si è
consolidato il principio secondo cui, qualora il giudice decida espressamente
sia sulla giurisdizione sia sul merito e la parte impugni solo sul merito, è
precluso al giudice di appello e alla Cassazione il rilievo d'ufficio della
questione di giurisdizione e alla parte interessata non è consentito introdurla
in sede di legittimità se non l'abbia proposta anche in appello, essendosi
formato il giudicato interno sulla questione (tra le tante: Cass. SS.UU.
28.3.2006 n. 7039, Sez. L. 8.8.2003 n. 12002, SS.UU. 9.7.1997 n. 6229). Tale
giudicato interno, secondo numerose pronunce (v. Cass. sez. un. 8.8.2001 n.
10961, Sez. L. 12.4.1984 n. 2377, SS.UU. 24.2.1982. n. 1151, SS.UU. 17.11.1978
n. 5330, SS.UU. 1506/1976), si forma per effetto di un fenomeno di acquiescenza,
ai sensi dell'art. 329 c.p.c., comma 2; altre pronunce, invece, pur giungendo
alla medesima conclusione, non fanno leva sull'art. art. 329 c.p.c., comma 2, ma
sulla preclusione derivante dal giudicato (Cass. SS.UU. 23.6.1983 n. 4295).
2.3. Nella specie i giudici di merito non hanno dedicato un capo della sentenza
alla questione della giurisdizione. Ma non per questo si può ritenere che la
questione non sia stata affrontata e decisa.
Qualsiasi decisione di merito implica la preventiva verifica della potestas
iudicandi; tale verifica, in assenza di formale eccezione o questione sollevata
di ufficio, avviene comunque de plano (implicitamente) e acquista "visibilità"
soltanto nel caso in cui la giurisdizione del giudice adito venga negata. In
linea di principio, se la questione della giurisdizione non viene sollevata in
alcun modo, significa che non vi è nessuna necessità che il giudice "mostri le
proprie credenziali". Ma, il fatto che la decisione non sia "visibile", non
significa che sia inesistente. Il giudice che decide il merito ha anche già
deciso di poter decidere. La progressione logica che porta al giudizio di merito
presuppone la soluzione delle questioni di giurisdizione e di competenza, anche
quando la decisione sulla potestas iudicandi implica la preventiva ricostruzione
del rapporto sostanziale dedotto in giudizio e del quadro normativo di
riferimento. La dottrina meno recente riteneva che in materia di giurisdizione
non sussistesse un ordine logico precostituito, posto che gli elementi della
fattispecie influiscono sulla identificazione del giudice competente. Quella
stessa dottrina riteneva che il giudicato sulla giurisdizione si formava
soltanto se sul punto fosse stata sollevata una autonoma questione
pregiudiziale, oggetto di specifico contraddittorio tra le parti (pregiudiziale
tecnica e non soltanto logica). La tesi era che, se la questione non veniva
espressamente sollevata, la stessa non poteva considerarsi risolta (come se la
mancata formalizzazione della questione annullasse l'ordine logico della
formulazione del giudizio). E' sbagliato, osservava ancora quella dottrina,
ritenere che i dubbi non sollevati siano stati risolti in modo implicito: il
giudice che non dubita non decide, ovvero decide senza riflettere e, quindi, è
inaffidabile.
Può anche accadere che un giudice privo di giurisdizione si ritenga competente
senza porsi per nulla il problema, ma si tratta di casi certamente marginali ai
quali può porre rimedio la "vigilanza" delle parti. Eventuali accordi illeciti
tra le parti (intesi a radicare la giurisdizione per ragioni di comodo presso un
giudice incompetente e non particolarmente solerte) non possono essere
contrastati negando valore al giudicato implicito: non basterebbe neanche il
giudicato esplicito. Di regola, però, se nessuno pone la questione di
giurisdizione e il giudice pronuncia la sentenza di merito, significa che la
potestas iudicandi è pacifica, nessuno la contesta e perciò non merita un
apposito dibattito. La tesi secondo la quale soltanto in caso di dubbio espresso
possa riconoscersi la forza certificatrice del giudicato appare illogica, perchè
esclude tale vis proprio quando la questione non presenta alcun margine di
incertezza e viene decisa de plano. Sarebbe come dire che la verità di un fatto
evidente è meno certa di un fatto originariamente dubbio, o come affermare che
il giudicato sul merito si forma soltanto in relazione alle circostanze di fatto
che abbiano formato oggetto di prova e non invece in relazione ai fatti notori o
non contestati.
L'assunto secondo il quale soltanto le decisioni che scaturiscono da un apposito
dibattito partecipano degli effetti previsti dall'art. 324 c.p.c., oltre ad
offrire il fianco alla incongruenza logica sopra evidenziata (per cui soltanto
la certezza che sia figlia del dubbio merita il sigillo del giudicato e non
invece le "certezze" di cui nessuno abbia mai dubitato) si pone anche in
evidente contrasto con le regole dell'economia processuale, perchè ciascuna
parte, quand'anche nessuno dubitasse della potestas iudicandi del giudice adito,
se volesse proseguire il giudizio senza il rischio di imprevedibili regressioni
successive, sarebbe costretta a provocare un contraddittorio sul punto. Senza
considerare che, in linea di principio, la certezza del giudicato talora deriva
non dall'accertamento dei fatti ma soltanto dalla impossibilità di accertarli,
in quanto sopperisce la regola di giudizio dell'onere della prova: il dubbio
resta nonostante la decisione. Ne deriva che, sul piano del valore di verità,
appare più affidabile la decisione che non sia passata attraverso il travaglio
del dubbio, che non quella che sia frutto del contraddittorio risolto iuxta
alligata et probata e non in base al principio di verità materiale.
In realtà, non bisogna confondere la successione cronologica delle attività di
cognizione del giudice, con il quadro logico della decisione complessiva
adottata in esito alle attività cognitive, all'interno del quale si collocano i
passaggi impliciti o espliciti che portano alla decisione finale (una sorta di
stratificazione da assestamento). Questi passaggi, che nel giudizio monocratico
non sono scanditi da un apposito rituale, sono plasticamente raffigurati nella
prescrizione dell'art. 276 c.p.c., comma 2, in forza del quale il collegio,
sotto la direzione del presidente, "decide gradatamente le questioni
pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d'ufficio e quindi il merito
della causa" (la disposizione, richiamata dagli artt. 131 e 141 disp. att.
c.p.c., riguarda anche i giudizi di appello e di cassazione). Vi è dunque un
preciso obbligo di legge di decidere prima ("gradatamente") le questioni
pregiudiziali (logiche o tecniche) e poi ("quindi") il merito. Pertanto, non si
può affermare che, in mancanza di una specifica statuizione, la questione di
giurisdizione (presente in ogni causa) non sia stata affrontata. Se il giudice
ha deciso il merito, in forza del combinato disposto dell'art. 276 c.p.c., comma
2, e art. 37 c.p.c. (che impone la verifica di ufficio della potestas iudicandi),
si deve ritenere che abbia già deciso, in senso positivo, la questione
pregiudiziale della giurisdizione. La regola della decisione per gradi
appartiene alla natura stessa del processo e la si ritrova espressamente sancita
anche nella disciplina del processo penale. L'art. 527 c.p.p., comma 1, dispone
infatti, analogamente all'art. 276 c.p.c., che il collegio, sotto la direzione
del presidente, decide separatamente le questioni preliminari e ogni altra
questione relativa al processo;
soltanto se l'esame del merito non risulti precluso sono poste in decisione le
questioni di fatto e di diritto concernenti l'imputazione.
Anche l'art. 279 c.p.c., comma 2, e art. 187 c.p.c., commi 2 e 3, indicano quale
sia la progressione naturale che il giudice deve seguire nel decidere le
questioni, nella quale quelle di merito vengono sempre dopo quelle attinenti
alla giurisdizione.
In definitiva, la decisione sul merito implica la decisione sulla giurisdizione
e, quindi, se le parti non impugnano la sentenza o la impugnano ma non
eccepiscono il difetto di giurisdizione, pongono in essere un comportamento
incompatibile con la volontà di eccepire tale difetto e, quindi, si verifica il
fenomeno della acquiescenza per incompatibilità con le conseguenti preclusioni
sancite dall'art. 329 c.p.c., comma 2, e dall'art. 324 c.p.c.. Naturalmente,
queste considerazioni valgono anche in relazione al processo tributario, al
quale si applicano le norme del codice di procedura civile, per quanto non
previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992 (art. 1, comma 2, e art. 49): "Anche al
processo tributario - caratterizzato, al pari di quello civile, dalla necessità
della difesa tecnica e da un sistema di preclusioni, nonchè dal rinvio alle
norme del codice di procedura civile, in quanto compatibili - è applicabile il
principio generale di non contestazione che informa il sistema processuale
civile (con il relativo corollario del dovere del giudice di ritenere non
abbisognevoli di prova i fatti non espressamente contestati), il quale trova
fondamento non solo negli artt. 167 e 416 cod. proc. civ., ma anche nel
carattere dispositivo del processo, che comporta una struttura dialettica a
catena, nella generale organizzazione per preclusioni successive, che
caratterizza in misura maggiore o minore ogni sistema processuale, nel dovere di
lealtà e di probità previsto dall'art. 88 cod. proc. civ., il quale impone alle
parti di collaborare fin dall'inizio a circoscrivere la materia effettivamente
controversa, e nel generale principio di economia che deve sempre informare il
processo, soprattutto alla luce del novellato art. 111 Cost.. Nè assumono alcun
rilievo, in contrario, le peculiarità del processo tributario, quali il
carattere eminentemente documentale dell'istruttoria e l'inapplicabilità della
disciplina dell'equa riparazione per violazione del termine di ragionevole
durata del processo" (Cass. 1540/2007).
Ne deriva che in ogni processo vanno individuati "due distinti e non
confondibili oggetti del giudizio, l'uno (processuale) concernente la
sussistenza o meno del potere-dovere del giudice di risolvere il merito della
causa e l'altro (sostanziale) relativo alla fondatezza o no della domanda"
(Cass. 2002/6737). Stante l'obbligo del giudice di accertare l'esistenza della
propria giurisdizione prima di passare all'esame del merito o di altra questione
ad essa successiva, può legittimamente presumersi che ogni statuizione al
riguardo contenga implicitamente quella sull'antecedente logico da cui è
condizionata e, cioè, sull'esistenza della giurisdizione, in difetto della quale
non avrebbe potuto essere adottata.
Anche la giurisprudenza più recente ha, d'altronde, concordato sul punto, pur
precisando che la impugnazione della statuizione sul merito riaprirebbe il
dibattito pure sulla questione di giurisdizione, sia perchè la rimetterebbe
comunque in discussione e sia perchè non sarebbe ipotizzabile il passaggio in
giudicato di una pronuncia implicita quando è ancora sub iudice quella espressa
che la contiene. Nessuna delle due anzidette ragioni risulta realmente decisiva.
Non la prima, perchè colui che si limita a chiedere la riforma della decisione
di merito non rimette affatto in discussione anche la giurisdizione ma, al
contrario, con il suo comportamento la riconosce, aderendo e/o prestando
acquiescenza alla pronuncia implicita su di essa.
E nemmeno la seconda, perchè l'accertamento della giurisdizione non rappresenta
un mero passaggio interno della statuizione di merito, ma costituisce un capo
autonomo che è pienamente capace di passare in giudicato anche nel caso in cui
il giudice si sia pronunciato solo implicitamente sul punto: "Una volta che il
giudice di primo grado abbia in modo espresso pronunciato sulla giurisdizione,
tale questione non può più formare oggetto di rilievo d'ufficio nell'ulteriore
corso del processo, ma solo di motivo di impugnazione;
sicchè analogamente, ove il giudice d'appello, pur ancora dalle parti investito
della questione di giurisdizione, abbia omesso di pronunciarsi in via
pregiudiziale, rendendo direttamente (ed unicamente) la decisione di merito, è
precluso nel giudizio di cassazione l'esame d'ufficio della questione medesima
ove nessuna delle parti abbia più censurato tale pronuncia con specifico motivo
di ricorso per Cassazione, con conseguente passaggio in giudicato della stessa
nella parte in cui il giudice d'appello ha ritenuto la sua giurisdizione" (Cass.
34/1999).
2.4. Resta ora da verificare se, e come, l'assunto del giudicato implicito sulla
giurisdizione possa conciliarsi con il la regola secondo la quale il difetto di
giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione
o dei giudici speciali è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado
del processo (art. 37 c.p.c., comma 1).
Intanto, sul piano metodologico, va precisato che, trattandosi di norma che
appare ictu oculi in contrasto con il generale principio di economia
processuale, come meglio si vedrà, deve essere interpretata in senso restrittivo
e residuale. In mancanza dell'art. 37 c.p.c., i soggetti processuali sarebbero
stati maggiormente responsabilizzati nella verifica della questione di
giurisdizione, non potendola poi sollevare successivamente. Le parti che
consapevolmente non sollevano l'eccezione di difetto di giurisdizione hanno
evidentemente la riserva mentale di formularla successivamente in base ad un
calcolo di convenienza (secundum eventum litis), quindi la loro inerzia ha un
fine palesemente dilatorio e non meritevole di tutela. Le parti che, invece, non
ritengono che sussista un problema di giurisdizione, per ben due gradi di
giudizio, ma lo sollevano poi soltanto in sede di giudizio di legittimità, o non
hanno svolto il loro compito in maniera diligente o "tentano" la carta estrema
della "distruzione processuale": in entrambi i casi non meritano tutela.
Quanto alla rilevabilità di ufficio del difetto di giurisdizione direttamente
nel giudizio di Cassazione, vi osta un elemento letterale ed uno sistematico.
L'art. 37 c.p.c., prevede la rilevabilità in ogni "stato e grado del processo",
con terminologia che non si attaglia al giudizio di legittimità, che non può
essere definito un grado del processo, ma semmai un momento di verifica della
legittimità dell'intero giudizio di merito, nei limiti dei motivi dedotti. Sul
piano sistematico va rilevato che il giudizio di cassazione è tendenzialmente
limitato alle sole questioni prospettate dalle parti (oggi nei ristretti limiti
del quesito di diritto), con la sola eccezione dei casi in cui la Corte intenda
esercitare di ufficio la funzione di nomofilachia e delle questioni rilevabili
di ufficio ma relative al ricorso. In altri termini la Corte conosce le nullità
in quanto dedotte con il ricorso.
L'avvento del principio della ragionevole durata del processo comporta l'obbligo
di verificare la razionalità delle norme che non prevedono termini per la
formulazione di eccezioni processuali per vizi che non si risolvono in una
totale carenza della tutela giurisdizionale, come ad esempio i vizi attinenti al
principio del contraddittorio. Questa Corte "ritiene che la
costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo
imponga all'interprete una nuova sensibilità ed un nuovo approccio
interpretativo, per cui ogni soluzione che si adotti nella risoluzione di
questioni attinenti a norme sullo svolgimento del processo deve essere
verificata non solo sul piano tradizionale della sua coerenza logico
concettuale, ma anche e soprattutto, per il suo impatto operativo sulla
realizzazione del detto obiettivo costituzionale" (Cass. 4 4636/2007).
L'art. 37 c.p.c., dunque, va letto ed interpretato nel contesto delle altre
regole processuali e della "sostenibilità" degli effetti cronologici.
In particolare, occorre tenere conto:
a) della regola della coerenza dei comportamenti delle parti (art. 329 c.p.c.),
per cui l'acquiescenza alla pronuncia sulla giurisdizione comporta la
impossibilità di sollevare successivamente l'eccezione di difetto di
giurisdizione;
b) del dovere di responsabile collaborazione delle parti per contenere i tempi
processuali: il principio costituzionale di ragionevole durata del processo si
rivolge non soltanto al giudice quale soggetto processuale, in funzione
acceleratoria, ma anche e soprattutto al legislatore ordinario ed al giudice
quale interprete della norma processuale, rappresentando un canone ermeneutico
imprescindibile per una lettura costituzionalmente orientata delle norme che
regolano il processo, nonchè a tutti i protagonisti del giudizio, ivi comprese
le parti, le quali, soprattutto nei processi caratterizzati dalla difesa
tecnica, debbono responsabilmente collaborare a circoscrivere tempestivamente i
fatti effettivamente controversi (Cass. 1540/2007);
c) della preclusione derivante dal giudicato, che opera, come si è detto, anche
nei confronti del giudice di legittimità (Cass. 34/1999).
L'evoluzione giurisprudenziale, nel quadro della interpretazione sistematica,
porta alla conclusione che la portata precettiva dell'art. 37 c.p.c., deve
essere contenuta in limiti più ristretti di quelli autorizzati dalla lettera
della legge (lex plus dixit quam voluit).
Occorre ora chiedersi se, tenuto conto del mutato quadro normativo- sistematico,
delle esigenze di coerenza del sistema e di tempestività delle decisioni, non
sia legittimo ritenere che la norma non operi anche in presenza di un giudicato
implicito sulla giurisdizione.
Sul piano della coerenza del sistema, sarebbe del tutto ingiustificato ritenere
che il giudicato implicito non abbia lo stesso effetto preclusivo del giudicato
esplicito, posto che incombe su tutti i soggetti del rapporto processuale
l'obbligo di controllare il corretto esercizio della potestas iudicandi, fin
dalle prime battute processuali, proprio in forza dell'art. 37 c.p.c., anche
quando la questione non venga espressamente sollevata. In altri termini, il
giudice deve innanzitutto "autolegittimarsi" (art. 276 c.p.c., comma 2) ed
eventualmente rilevare subito il difetto di giurisdizione (art. 37 c.p.c.) e,
quindi, il suo silenzio equivale ad una pronuncia positiva, così come il
silenzio delle parti vale acquiescenza (art. 329 c.p.c.): una sorta di
trilaterale "silenzio assenso" giurisdizionale.
L'evoluzione del quadro legislativo, ordinario e costituzionale, mostra
l'affievolimento della centralità del principio di giurisdizione intesa come
espressione della sovranità statale, accompagnata dalla simmetrica emersione
della esigenza di sburocratizzare la giustizia, non più espressione esclusiva
del potere statale, ma servizio per la collettività, che abbia come parametro di
riferimento l'efficienza delle soluzioni e la tempestività del
prodotto-sentenza, in un mutato contesto globale in cui anche la giustizia deve
adeguarsi alle regole della concorrenza (si parla infatti di concorrenza degli
ordinamenti giuridici).
Ritiene il Collegio che la norma abbia subito una profonda e progressiva
erosione ad opera del legislatore ordinario e delle nuove indicazioni
ermeneutiche venute dal legislatore costituzionale (oltre che della ricordata
giurisprudenza).
Ne deriva che la portata dell'art. 37 c.p.c., riacquista la sua massima
espansione soltanto quando il tenore della decisione (che attenga al rito o al
merito) sia tale da escludere qualsiasi forma di implicita delibazione sulla
giurisdizione. Ciò in quanto, se c'è una decisione (implicita o esplicita)
errata sulla giurisdizione, questa non può e non deve (posto che i tempi morti
del processo non possono premiare chi ne è causa) sfuggire al triplice (attore-
convenuto-giudice) costante controllo imposto dall'art. 37 c.p.c..
Questa disposizione, infatti, non si limita ad attribuire una facoltà ai
soggetti processuali, ma impone loro un vero e proprio obbligo (investendo anche
le parti di una funzione pubblica di vigilanza processuale) che sorge in
qualunque stato e grado del processo la questione affiori: "il difetto di
giurisdizione ... è rilevato" (art. 37 c.p.c., comma 1). In altri termini, il
riferimento ad ogni "stato" del processo sta a significare che la questione, una
volta che sia affiorata, non può essere sollevata poi ad libitum, ma deve essere
affrontata appena emersa. Altrimenti sarebbe stato sufficiente il riferimento al
solo "grado" del processo. Invece, il legislatore facendo riferimento anche allo
stato del processo ha inteso chiarire che la questione deve essere subito
affrontata, quale che sia appunto lo stato del processo. In mancanza, con la
pronuncia di merito, se l'eccezione non viene nemmeno sollevata con i motivi di
impugnazione, la stessa non può più essere sollevata. Infatti, non può
considerarsi ragionevole il tempo perduto perchè una eccezione non venga
tempestivamente sollevata; nè la parte che non adempia a tale obbligo/onere può
ritenersi penalizzata per le conseguenze che ne derivano, posto che avrebbe
potuto porvi rimedio tempestivamente.
2.5. Il sistema originario consentiva la massima espansione semantica all'art.
37 c.p.c., comma 1, essendo inserito in un contesto caratterizzato dal principio
di inderogabilità delle regole sulla potestas iudicandi, sia con riferimento
alla giurisdizione che con riferimento alla competenza per materia, per valore e
territoriale inderogabile (quella cioè ripartita sulla base di criteri di ordine
pubblico).
La disposizione in esame, nella sua connotazione originaria, costituiva il
fulcro di un sistema, di cui era anche norma di chiusura, in quanto individuava
nell'esercizio della giurisdizione e nel suo riparto una tipica espressione
della sovranità statale e del suo monopolio legislativo, insensibile ai
comportamenti e alla volontà degli utenti della giustizia (salvo
particolarissime eccezioni). Infatti, l'art. 2 c.p.c., stabiliva il principio
della inderogabilità convenzionale della giurisdizione, che non affievoliva
neanche in caso di litispendenza internazionale: "La giurisdizione italiana non
è esclusa dalla pendenza davanti a un giudice straniero della medesima causa o
di altra con questa connessa" (art. 3 c.p.c.). L'art. 37 c.p.c., comma 2, poi,
estendeva la regola della rilevabilità di ufficio in ogni stato e grado del
procedimento anche al difetto di giurisdizione del giudice italiano anche nei
confronti dello straniero.
Già nell'assetto originario, comunque, nonostante le rigidità del sistema (che
sacrificava al mito della inderogabilià della giurisdizione ogni principio di
economia processuale), il legislatore riteneva auspicabile che la questione
pregiudiziale sulla giurisdizione venisse decisa immediatamente, per evitarne la
riproposizione in ogni stato e grado del giudizio, con il rischio di vanificare
poi il lavoro svolto, proprio perchè la cultura del tempo (e l'art. 2 c.p.c.)
non consentiva di derogare alle regole sulla giurisdizione, in considerazione
dell'interesse pubblico sotteso al corretto esercizio della potestas iudicandi
(testimoniata anche dalla inderogabilità prevalente delle regole sulla
competenza). A tal fine il legislatore ha previsto il regolamento preventivo di
giurisdizione disciplinato dall'art. 41 c.p.c., in forza del quale, finchè la
causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte può chiedere alle
sezioni unite della Corte di cassazione che risolvano le questioni di
giurisdizione di cui all'art. 37 c.p.c.. Si tratta di un istituto che, in regime
di inderogabilità delle norme sulla giurisdizione (art. 2 c.p.c.), tendeva già
ad evitare che i tempi del processo si protraessero nella sola ricerca del
giudice competente.
Con il tempo, i vari ordini dei giudici esistenti in Italia hanno visto sempre
più sfumare il loro iniziale carattere di mondi autonomi e separati, non
comunicanti fra loro ed ispirati a meccanismi su cui le parti non potevano
influire.
Basta ricordare l'abrogazione dell'art. 2 c.p.c. (in tema di inderogabilità
delle norme sulla giurisdizione), avvenuta in forza della L. 31 maggio 1995, n.
218, art. 73. La stessa legge ha anche abrogato l'art. 3 c.p.c. e art. 37 c.p.c.,
comma 2 (art. 73) ed ha introdotto il principio secondo cui la sussistenza della
giurisdizione del giudice italiano può dipendere anche dall'accordo delle parti
o dal comportamento del convenuto, che comparendo nel processo, non sollevi
alcuna obiezione al riguardo (art. 4). Una sorta di "portabilità" della
giurisdizione che ha dato luogo al fenomeno del c.d. "forum shopping" (per cui,
in taluni casi, colui che debba far valere una pretesa in sede giudiziaria, può
scegliere di rivolgersi al tribunale che applica la legge a lui più favorevole).
Il fenomeno, che testimonia della evoluzione in senso dispositivo della
giurisdizione intesa come oggetto del processo, ha assunto notevoli dimensioni,
al punto che il legislatore comunitario è intervenuto più volte per arginarlo e
per fissare criteri di collegamento per la individuazione della legge da
applicarsi di volta in volta, nell'ambito del progetto volto a creare uno spazio
europeo di libertà, sicurezza e giustizia (v. regolamento 44/2001, che
disciplina la competenza internazionale dei giudici e il riconoscimento e
l'esecuzione delle decisioni emesse in un altro Stato membro, regolamento
864/2007/CE sulle norme applicabili alle obbligazioni extracontrattuali di tipo
civile e commerciale, e da ultimo il regolamento 593/2008, in tema di
obbligazioni contrattuali transfrontaliere). Il fenomeno del forum shopping
testimonia, dunque, il superamento del monopolio statale della disciplina della
giurisdizione e delle rigidità connesse, che appaiono incompatibili con
l'avvento della "concorrenza internazionale e sopranazionale degli ordinamenti
giuridici". Questa premia la bontà e la celerità del servizio giustizia
(attraendo investimenti e shoppers), quando venga affrancata dai viziosi
meccanismi processuali, in cui talora resta intrappolata la giurisdizione (per
riportare il pensiero di una recente dottrina). I regolamenti comunitari, lungi
dal voler ripristinare i monopoli statali della giurisdizione sono stati
adottati per esigenze di certezza del diritto e per evitare "abusi di
giurisdizione".
Per meglio testimoniare questa perdita di anelasticità ed impermeabilità della
giurisdizione, giova ricordare ancora, sul piano interno, che in forza della L.
21 luglio 2000, n. 205, art. 6, le controversie sui diritti devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo si possono deferire ad
arbitri e, attraverso l'impugnazione del lodo, possono approdare dinanzi al
giudice ordinario.
La Corte costituzionale, poi, nella sentenza n. 77 del 12.3.2007, ha affermato
che "Il principio della incomunicabilità dei giudici appartenenti ad ordini
diversi - comprensibile in altri momenti storici ... - è certamente
incompatibile, nel momento attuale, con fondamentali valori costituzionali. Se è
vero, infatti, che la Carta costituzionale ha recepito, quanto alla pluralità
dei giudici, la situazione all'epoca esistente, è anche vero che la medesima
Carta ha, fin dalle origini, assegnato con l'art. 24 (ribadendolo con l'art.
111) all'intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela,
attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi.
Questa essendo la essenziale ragion d'essere dei giudici, ordinari e speciali,
la loro pluralità non può risolversi in una minore effettività, o addirittura in
una vanificazione della tutela giurisdizionale: ciò che indubbiamente avviene
quando la disciplina dei loro rapporti - per giunta innervantesi su un riparto
delle loro competenze complesso ed articolato - è tale per cui l'erronea
individuazione del giudice munito di giurisdizione (o l'errore del giudice in
tema di giurisdizione) può risolversi in un pregiudizio irreparabile della
possibilità stessa di un esame nel merito della domanda di tutela
giurisdizionale. Una disciplina siffatta, in quanto potenzialmente lesiva del
diritto alla tutela giurisdizionale e comunque tale da incidere sulla sua
effettività, è incompatibile con un principio fondamentale dell'ordinamento, il
quale riconosce bensì la esistenza di una pluralità di giudici, ma la riconosce
affinchè venga assicurata, sulla base di distinte competenze, una più adeguata
risposta alla domanda di giustizia, e non già affinchè sia compromessa la
possibilità stessa che a tale domanda venga data risposta. Al principio per cui
le disposizioni processuali non sono fine a se stesse, ma funzionali alla
miglior qualità della decisione di merito, si ispira pressochè costantemente -
nel regolare questioni di rito - il vigente codice di procedura civile, ed in
particolare vi si ispira la disciplina che all'individuazione del giudice
competente - volta ad assicurare, da un lato, il rispetto della garanzia
costituzionale del giudice naturale e, dall'altro lato, l'idoneità (nella
valutazione del legislatore) a rendere la migliore decisione di merito - non
sacrifica il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o
negativa, in ordine al bene della vita oggetto della loro contesa".
Queste affermazioni della Corte costituzionale, anticipate dalle Sezioni Unite
nella sentenza del 22.2.2007 n. 4109, rv. 595428, seppur riferite al diverso
tema della "translatio iudicii", sembrano idonee a giustificare
un'interpretazione adeguatrice dell'art. 37 c.p.c., comma 1, tenuto conto che
l'ordine costituzionale (dei criteri di riparto) delle giurisdizioni non è
affatto messo in discussione da una interpretazione della predetta norma che
impedisca una regressione del processo allo stato iniziale, con conseguente
vanificazione di due pronunce di merito e allontanamento sine die di una valida
pronuncia sul merito. Come acutamente ha rilevato il Consiglio di Stato (Sez.
4^, 2008/1059), l'affermazione del principio della translatio iudici davanti a
un giudice di un diverso ordine, ha fortemente assimilato il difetto di
giurisdizione a quello di competenza.
Per completare l'illustrazione della evoluzione del quadro legislativo verso una
meno rigida disciplina delle regole sulla potestas iudicandi, occorre ricordare
che l'art. 38 c.p.c., sostituito dalla L. n. 353 del 1990, art. 4, stabilisce
ora che l'incompetenza per materia, quella per valore e quella territoriale
inderogabile non sono rilevabili oltre la prima udienza di trattazione. In
origine, invece, la norma ricalcava, almeno in parte, il testo dell'art. 37
c.p.c.: l'incompetenza per materia e quella per territorio inderogabile
(trattandosi di criteri di attribuzione della cognizione dettati da ragioni di
ordine pubblico, al pari di quelli relativi alla giurisdizione) era rilevabile
anche di ufficio in ogni stato e grado del processo (l'incompetenza per valore
soltanto in ogni momento del giudizio dì primo grado).
La riforma ha una doppia valenza. Il segnale dato dal legislatore è nel senso
che i criteri di ripartizione della competenza, anche quando siano dettati da
ragioni di ordine pubblico, devono essere conciliati con le esigenze di celerità
del processo. Pertanto, il diritto delle parti interessate ed il dovere del
giudice di rilevare l'eventuale incompetenza è stato assoggettato ad un termine
di decadenza. Il legislatore del 1990 non è andato oltre e non ha riformato
simmetricamente l'art. 37 c.p.c., perchè soltanto successivamente, con la L. n.
218 del 1995, è stato abrogato il principio della inderogabilità convenzionale
della giurisdizione.
Oggi, nel mutato quadro normativo (interno ed internazionale) in tema di
giurisdizione (non più inderogabile) e con l'avvento della
costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo, il
principio di economia processuale non può non produrre i suoi effetti anche in
relazione ai tempi concessi per il consolidamento della giurisdizione. Non ha
senso giocare una partita in un campo di cui solo successivamente possa essere
verificata la praticabilità. Quindi, l'art. 37 c.p.c., ha subito certamente una
erosione di principio, nel senso che il contenuto letterale della norma deve
cedere il passo alla odierna intenzione del legislatore (voluntas legis) frutto
della evoluzione storica del sistema (art. 12 preleggi, comma 1) che impone
termini perentori per la verifica della potestas iudicandi. La riduzione degli
spazi applicativi dell'art. 37 c.p.c., è simmetrica alla "portata espansiva del
nuovo dettato costituzionale", che fornisce ai giudici "uno strumento per
verificare la tenuta e la portata delle singole norme del codice di rito e per
garantirne una interpretazione costituzionalmente orientata" (Cass. 20604/2008).
Inoltre, la riforma dell'art. 38 c.p.c., incide sulla portata dell'art. 37
c.p.c., non soltanto in termini di principio, ma anche in termini di diretta
riduzione degli spazi interpretativi di quest'ultima disposizione. Se fosse
legittima, ma non lo è, l'eccezione secondo la quale il giudizio di merito non
implica un giudizio sulla giurisdizione, alla quale le parti ed il giudice
potrebbero "non aver pensato", la stessa eccezione non sarebbe comunque
proponibile quando una sentenza si pronunci expressis verbis sulla potestas
iudicandi. Competenza e giurisdizione stanno tra loro in termini di continenza
e, quindi, il giudice che si pronunci affermando la propria competenza, non può
non aver verificato il presupposto della giurisdizione. Infatti, secondo la
giurisprudenza di questa Corte, anche la pronuncia che declina la competenza
implica l'affermazione della giurisdizione: "la pronuncia declinatoria della
competenza presuppone, come antecedente logico giuridico, la positiva
affermazione, ancorchè implicita, della giurisdizione, avendo ad oggetto un
accertamento subordinato, rispetto al quesito pregiudiziale relativo
all'esistenza della "potestas iudicandi" del giudice adito" (Cass. 26483/2007).
Conseguentemente, se la competenza del giudice adito (che implica la sussistenza
della giurisdizione) non può più essere messa in discussione dopo il termine
fissato dall'art. 38 c.p.c., non si vede poi come la giurisdizione possa essere
rimessa in discussione sine die. In altri termini, se le esigenze di economia
processuale impongono la verifica immediata della potestas iudicandi entro
termini rigorosi, non si spiega una radicale diversità di disciplina, quando i
criteri di riparto siano analoghi. Si deve propendere perciò per una
interpretazione restrittiva dell'art. 37 c.p.c., per ragioni di coerenza del
sistema e di lettura adeguatrice della norma alle innovazioni costituzionali. Nè
si potrebbe osservare che, se il legislatore ha modificato l'art. 38 c.p.c.,
senza intervenire anche sull'art. 37 c.p.c., significa che ha inteso mantenere
una differente disciplina. Il rilievo non avrebbe pregio, perchè, come già
accennato, il legislatore del 1990 è intervenuto in un sistema in cui era ancora
vigente la inderogabilità convenzionale della giurisdizione (art. 2 c.p.c.). Nel
mutato quadro normativo, gli effetti dell'art. 38 c.p.c., riformato, si
proiettano necessariamente sulla portata dell'art. 37 c.p.c., nel senso che se
la verifica della competenza implica la verifica della giurisdizione, quando i
tempi per la verifica della competenza sono esauriti coerenza vuole che siano
esauriti anche quelli per la verifica della giurisdizione; ovvero, coerenza
vuole che almeno questi ultimi non siano dilatati fino al punto da essere
incompatibili con la ragionevole durata del processo.
La differenza tra quanto dispone l'art. 38 c.p.c., e quanto dispone l'art. 37
c.p.c., è che questo consente di eccepire il difetto di giurisdizione anche dopo
la scadenza dei termini previsti dall'art. 38 c.p.c. (non oltre la prima udienza
di trattazione), e comunque mediante impugnazione della sentenza che, decidendo
nel merito, abbia anche deciso (implicitamente o esplicitamente) sulla
giurisdizione.
Inoltre, l'eccezione può sempre essere proposta (senza preclusioni) in tutti i
casi in cui la sentenza non contenga statuizioni che implicano l'affermazione
della giurisdizione, come, ad esempio, quando l'unico tema dibattuto sia stato
quello relativo alla ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione
della sentenza impugnata risulti che l'evidenza di una soluzione abbia assorbito
ogni altra valutazione, (es. manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia
indotto il giudice a decidere il merito per saltum, superando la progressione
stabilita dal legislatore, per ragioni, anche in questo caso, di economia
processuale. Entro questi limiti, il tenore letterale dell'art. 37 c.p.c., resta
integro, salvo verifica di legittimità costituzionale, che in questa sede
sarebbe irrilevante. Nè il carattere marginale delle applicazioni residuali
dell'art. 37 c.p.c., è argomento che possa indebolire la bontà della
interpretazione recepita dal collegio: un rilievo del genere, se fosse fondato,
delegittimerebbe tutte le norme previste per disciplinare fattispecie poco
ricorrenti, ma necessarie per la chiusura del sistema. Inoltre, sarebbe un
rilievo "tardivo":
l'erosione dell'area semantica dell'art. 37 c.p.c., deriva dal riconoscimento,
oramai consolidato in giurisprudenza, della efficacia del giudicato interno
sulla giurisdizione; riconoscimento che solo accidentalmente si è avuto prima in
relazione al giudicato espresso e solo oggi in relazione al giudicato implicito.
In altri termini, se, in linea di principio, il giudicato interno sulla
giurisdizione è idoneo a sterilizzare il contenuto precettivo dell'art. 37
c.p.c., non rileva poi che tecnicamente si tratti di giudicato espresso o
implicito, trattandosi di qualificazione che attiene alla fenomenologia del
giudicato e non ai suoi effetti.
Pertanto:
a) fino a quando la causa non sia decisa nel merito in primo grado, il difetto
di giurisdizione può essere eccepito dalle parti, anche dopo la scadenza dei
termini previsti dall'art. 38 c.p.c. (anche se sarebbe opportuno un intervento
legislativo di coordinamento);
b) entro lo stesso termine le parti possono chiedere il regolamento preventivo
di giurisdizione ai sensi dell'art. 41 c.p.c.;
c) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto
di giurisdizione;
d) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto
se sul punto non si è formato il giudicato implicito o esplicito;
e) il giudice può rilevare anche di ufficio il difetto di giurisdizione, fino a
quando sul punto non si sia formato il giudicato implicito o esplicito.
2.6. Occorre ora verificare la compatibilità della soluzione prospettata con i
parametri costituzionali, nel senso che la riduzione degli spazi processuali per
eccepire il difetto di giurisdizione potrebbe confliggere con il principio del
giudice naturale precostituito per legge cui nessuno può essere sottratto (art.
25 Cost., comma 1) o con le altre norme costituzionali sulla giurisdizione
(artt. 111 e 113 Cost.).
Quanto al rispetto principio del giudice naturale, in forza del quale nessuno
può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge, la Corte
Costituzionale è già stata investita della questione proprio in relazione allo
sbarramento previsto dell'art. 38 c.p.c., riconoscendone la legittimità (ord.
128/1999). Il giudice delle leggi ha escluso che l'art. 38 c.p.c., ponendo un
limite temporale alla rilevabilità dell'incompetenza e consentendo la
trattazione della causa da parte di un giudice carente del potere
giurisdizionale, nei casi in cui l'incompetenza non sia tempestivamente
rilevata, si ponga in contrasto con il principio della precostituzione del
giudice, in quanto permette la sostituzione del giudice naturale con altro
giudice, il quale verrebbe ad acquisire il potere giurisdizionale non in forza
di una previsione normativa, ma per una mera omissione delle parti le quali
potrebbero anche accordarsi per scegliere un giudice incompetente. La Corte
ribadisce che, come più volte ha avuto modo di affermare, al legislatore deve
riconoscersi la più ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti
processuali e nell'articolazione del processo, fermo il limite della
ragionevolezza e, quindi, il legislatore può legittimamente introdurre
limitazioni alla possibilità di rilevare i vizi di competenza a vantaggio
dell'interesse all'ordine ed alla speditezza del processo. Nè rileva che le
parti possano scegliere un giudice incompetente, rinunciando a sollevare la
relativa eccezione, posto che comunque il giudice ha l'obbligo di procedere alla
verifica preliminare della potestas iudicandi.
Mutatis mutandis, il ragionamento della Corte vale anche in relazione alla
possibilità di limitare nel tempo la rilevabilità del difetto di giurisdizione.
Quanto alle norme sulla giurisdizione, l'art. 111 Cost., comma 8, prevedendo
l'impugnabilità delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti
con ricorso in Cassazione, stabilisce i limiti esterni del ricorso, ma non
riguarda la disciplina delle preclusioni interne. Così pure, l'art. 113 Cost.,
comma 3, nello stabilire che la legge determina quali organi di giurisdizione
possano annullare gli atti della pubblica amministrazione, fa salvo il rispetto
dei limiti sostanziali e procedurali previsti dalla legge (se così non fosse,
neanche il giudicato esplicito parziale sulla giurisdizione metterebbe al riparo
dalla riproposizione della questione). Comunque, alla luce della citata
giurisprudenza della Corte Costituzionale, il principio del giusto processo e
della sua ragionevole durata assume valore prevalente rispetto ad altre
prescrizioni costituzionali, nei limiti in cui gli altri principi di garanzia
siano comunque assicurati.
Il principio della ragionevole durata del processo, invece, diventa l'asse
portante della nuova lettura dell'art. 37 c.p.c., la quale, peraltro, trova
conforto, come già osservato, anche sul piano della comparazione sistematica con
l'art. 38 c.p.c..
In altri termini, il principio di ragionevole durata del processo, per quanto
rivolto al legislatore, ben può fungere da parametro di costituzionalità con
riguardo a quelle norme processuali le quali - rispetto al fine primario del
processo che consiste nella realizzazione del "diritto delle parti ad ottenere
una risposta, affermativa o negativa, in ordine al bene della vita oggetto della
loro contesa" (v. Corte Cost. n. 77 del 2007 cit.) - prevedano rallentamenti o
tempi lunghi, inutili passaggi di atti da un organo all'altro, formalità
superflue non giustificate da garanzie difensive nè da esigenze repressive o di
altro genere. E' vero che il principio della ragionevole durata "dev'essere
contemperato con le esigenze di tutela di altri diritti e interessi
costituzionalmente garantiti rilevanti nel processo ..., la cui attuazione
positiva, ove sia frutto di scelte assistite ... da valide giustificazioni, non
è sindacabile sul terreno costituzionale" (in tal senso, Corte Cost.
11.12.2001 n. 399), ed è anche vero che le disposizioni processuali concernenti
l'individuazione del giudice competente sono volte ad assicurare il rispetto
della garanzia costituzionale del giudice naturale, ma pur sempre a condizione
di non sacrificare il diritto della parte ad una valida decisione di merito in
tempi ragionevoli (in tal senso Corte cost. n. 77/2007 cit.). Nel bilanciamento
tra i valori costituzionali della precostituzione per legge del giudice naturale
(artt. 25 e 103 Cost.) e della ragionevole durata del processo, si deve tenere
conto che una piena ed efficace realizzazione del primo ben può (e deve)
ottenersi evitando che il difetto di giurisdizione del giudice adito possa
emergere dopo che la causa sia stata decisa nel merito in due gradi di giudizio.
L'art. 37 c.p.c., comma 1, nell'interpretazione tradizionale, basata sulla sola
lettera della legge, non realizza un corretto bilanciamento dei valori
costituzionali in gioco e produce una ingiustificata violazione del principio
della ragionevole durata del processo e dell'effettività della tutela (artt. 24
e 111 Cost.), in quanto comporta la regressione del processo allo stato
iniziale, la vanificazione di due pronunce di merito e l'allontanamento sine die
di una valida pronuncia sul merito.
In definitiva, la norma il cui tenore letterale sembra consentire che un vizio
procedurale immediatamente rilevabile possa essere fatto valere per saltum
soltanto dopo che il processo abbia esaurito i gradi di merito, con l'effetto di
riportare a zero tutta l'attività svolta, non può essere ascritta tra quelle che
assicurano la ragionevole durata del processo e, quindi, va interpretata
utilizzando i riferimenti sistematici e costituzionali che consentano di
contenerne la portata nei limiti dei parametri di ragionevolezza utilizzati dal
legislatore per istituti analoghi.
2.7. Nel merito, il ricorso non può trovare accoglimento.
Denunciando la violazione del D.Lgs. n. 460 del 1997, artt. 10 e 11, e vizi di
motivazione, l'Agenzia delle Entrate formula diverse censure nei confronti della
sentenza impugnata.
Innanzitutto, la ricorrente sostiene che la CTR abbia errato nel considerare che
il fine di solidarietà sociale non possa essere perseguito se non nei confronti
di soggetti che versino in condizioni di svantaggio economico e, quindi,
contrariamente a quanto afferma la CTR, il fatto che gli ospiti della Casa per
anziani, facente parte della struttura assistenziale, pagassero delle rette,
talora anche cospicue, doveva essere considerato un chiaro segnale della assenza
del fine solidaristico. La tesi è in contrasto con il chiaro dettato
legislativo, in forza del quale si intende che vengono perseguite finalità di
solidarietà sociale quando le cessioni di beni e le prestazioni di servizi siano
dirette ad arrecare benefici a persone svantaggiate in ragione di condizioni
fisiche, psichiche, economiche, sociali o familiari (D.Lgs. n. 460 del 1997,
art. 10, comma 2, lett. a), recante norme sul Riordino della disciplina
tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di
utilità sociale). Quindi, le attività possono essere considerate rientranti tra
quelle aventi finalità di solidarietà sociale anche a prescindere dalla
sussistenza di una situazione di svantaggio economico del beneficiario. Tale
situazione di svantaggio è soltanto una tra quelle previste dal legislatore in
via alternativa e la ricorrente non contesta che i destinatari delle prestazioni
potessero versare in condizioni di svantaggio di altro tipo.
Evidentemente, l'Agenzia delle Entrate collega, erroneamente, il requisito che
deve sussistere nei confronti dei beneficiari delle prestazioni, con il divieto
di distribuzione di utili che grava sul soggetto erogante (art. 10 cit., comma
1, lett. d). Il fatto che le prestazioni vengano fornite dietro corrispettivo
non fa venir meno il fine solidaristico, sempre che venga rispettato il citato
divieto (unitamente a tutte le altre prescrizioni previste dal citato art. 10) e
che i destinatari versino in una delle indicata condizioni di svantaggio.
Si possono condividere, perciò, le considerazioni della CTR, secondo la quale la
solidarietà non si manifesta soltanto con il sostegno economico, in quanto ben
può manifestarsi nei confronti di persone anziane che "per condizioni
psicologiche, familiari, sociali o per particolari necessità assistenziali
risultino impossibilitate a permanere nel nucleo familiare di origine". Pertanto
"non appare incompatibile con il fine solidaristico di una Onlus lo svolgimento
di attività dietro pagamento". Sempre che, occorre aggiungere, attraverso il
pagamento non si realizzi, accanto all'intento solidaristico, anche un fine di
lucro (stante il precetto che impone l'esclusività del fine solidaristico: art.
10 cit., comma 1, lett. b). L'accertamento del perseguimento di finalità
estranee alla solidarietà e/o della realizzazione di utili impiegati in attività
istituzionali o connesse (art. 10 cit., comma 1, lett. e), attiene al merito
della causa. Nella specie la CTR rileva che "L'elemento sostanziale che è alla
base della controversia di cui è causa, va ricercato nella effettiva attività
svolta, se, cioè, l'attività della Fondazione Opera (OMISSIS) sia riconducibile
o meno all'attività di assistenza sociale e socio-sanitaria. Risulta in atti che
le competenti autorità hanno riconosciuto espressamente che l'attività svolta
dalla fondazione sia di carattere socio- assistenziale a favore di persone
anziane, che gli adempimenti contabili che devono rigorosamente essere
rispettati dalle Onlus sono stati correttamente attuati e che la Fondazione non
ha provveduto, nemmeno indirettamente alla distribuzione di utili o di avanzi di
gestione".
In fatto, la CTR ritiene che sulla base della documentazione acquisita siano
stati rispettati tutti i parametri e le condizioni di legge per beneficiare
dello speciale regime giuridico previsto per le Onlus.
L'Agenzia delle Entrate, denuncia che la CTR non ha tenuto conto della
documentazione prodotta, dalla quale risultava che la Fondazione ha realizzato
cospicui utili che non ha mai impiegato per contenere i prezzi delle rette,
rimasti sempre al livello di quelli di mercato.
La ricorrente afferma genericamente che tale documentazione sarebbe stata
indicata nell'atto di appello e consisterebbe nei bilanci e nelle dichiarazioni
fiscali, dei quali non si dice altro. La censura è inammissibile per carenza di
autosufficienza (v., ex multis, Cass. 15952/2007, 15808/2008). E' pur vero che
la CTR ha ricostruito i fatti sulla base di una motivazione molto sintetica, ma
la inammissibilità della censura non consente di entrare nel merito della
stessa.
Parte ricorrente censura la motivazione della sentenza impugnata nella parte in
cui la CTR afferma che la circostanza che la Fondazione abbia partecipato alla
costituzione di una srl non sarebbe inconciliabile con il fine esclusivamente
solidaristico, non potendosi escludere che gli utili realizzati venissero poi
utilizzati "nel rispetto delle disposizioni statutarie e delle normative Onlus".
La censura non è condivisibile perchè, come si evince dal D.Lgs. n. 460 del
1997, art. 10, comma 1, lett. d) ed e), la realizzazione di utili non esclude il
fine solidaristico dell'attività; occorre, però, che gli utili stessi vengano
impiegati per la realizzazione di attività istituzionali o connesse (cit. D.Lgs.
n. 460, art. 10, comma 1, lett. e)) o che, comunque, non vengano distribuiti
(cit.
D.Lgs. n. 460, art. 10, comma 1, lett. d)).
La prove dell'indebito utilizzo degli utili, nella specie, doveva essere fornita
dall'Agenzia delle Entrate (attrice in senso sostanziale) che ha proceduto alla
cancellazione della Fondazione dall'albo delle Onlus, assumendo che a seguito di
verifica era stato accertato che non sussistevano più i presupposti che ne
legittimavano l'iscrizione. L'Agenzia delle Entrate doveva provare i fatti in
base ai quali ha ritenuto che fossero venuti meno i presupposti per mantenere
l'iscrizione della Fondazione nell'albo delle Onlus (nella specie, la indebita
distribuzione di utili).
Legittimamente, quindi, la CTR rileva che in mancanza della prova di un indebito
utilizzo degli utili, il solo perseguimento di questi non è sufficiente a
determinare la perdita dello status di Onlus.
Infine, la ricorrente denuncia che erroneamente la CTR ha utilizzato, come
indizio del perseguimento del fine di solidarietà socio- assistenziale e
socio-sanitaria, la circostanza che la fondazione operava in regime di
convenzione con la locale USL, posto che le USL si occupano soltanto di attività
sanitaria. A parte la considerazione che non sempre risulta chiaro il confine
tra attività meramente sanitarie ed attività socio-sanitarie (per cui non è
escluso che queste ultime possano rientrare nel raggio di azione delle USL) va
rilevato che non si tratta di un elemento utilizzato in maniera non determinante
(altra è la ratio decidendi) che, comunque, implica valutazioni che attengono al
merito della convenzione.
2.8. Conseguentemente, il ricorso va respinto. Sussistono giuste ragioni per
compensare le spese del giudizio di legittimità, per la novità delle questioni
prospettate, sia sul piano processuale che sul piano sostanziale.
P.Q.M.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso del Ministero dell'Economia e delle
Finanze, rigetta il ricorso dell'Agenzia delle Entrate e compensa tra le parti
le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 23 settembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2008