L’obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi,
previsto dall’art. 3 della legge n. 241 del 1990 e successive
modificazioni, è diretto a realizzare la conoscibilità, e quindi la
trasparenza, dell’azione amministrativa. Esso è radicato negli artt. 97
e 113 Cost., in quanto, da un lato, costituisce corollario dei principi
di buon andamento e d’imparzialità dell’amministrazione e, dall’altro,
consente al destinatario del provvedimento, che ritenga lesa una
propria situazione giuridica, di far valere la relativa tutela
giurisdizionale.
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, del
decreto legislativo del 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’art. 1
della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e
della sicurezza nei luoghi di lavoro), promosso dal Tribunale
amministrativo regionale per la Liguria nel procedimento vertente tra
la Pizzeria P., ditta individuale di C. D., e il Ministero del lavoro e
della previdenza sociale con ordinanza del 13 maggio 2009, iscritta al
n. 204 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti l’atto di costituzione della Pizzeria P., ditta individuale di C.
D., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 6 ottobre 2010 il Giudice relatore
Alessandro Criscuolo;
udito l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. — Il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria (d’ora in
avanti, T.A.R.), con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in
riferimento agli articoli 97, primo comma, 24 e 113 della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 1, del
decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’art. 1 della
legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della
sicurezza nei luoghi di lavoro), «nella parte in cui prevede che "ai
provvedimenti del presente articolo non si applicano le disposizioni di
cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241" e, segnatamente, nella parte in
cui esclude l’applicazione ai provvedimenti de quibus dell’art. 3 comma
1 della legge 7 agosto 1990, n. 241».
2. — Il rimettente riferisce che, con ricorso notificato il 27 maggio
2008, C. D., titolare di una ditta individuale per la produzione e il
recapito di pizze da asporto, ha impugnato un provvedimento con il
quale il Servizio ispezione del lavoro della Direzione provinciale del
lavoro di Genova, in seguito a una visita ispettiva presso i locali
dell’impresa, aveva disposto, ai sensi dell’art. 14, comma 1, del
citato d.lgs., la sospensione dell’attività imprenditoriale, avendo
accertato l’impiego di due fattorini addetti al recapito delle pizze da
asporto (pari al 66 per cento del totale dei lavoratori presenti sul
posto di lavoro), non risultanti dalle scritture o da altra
documentazione obbligatoria.
Il giudice a quo, dopo aver riassunto i motivi del ricorso (violazione
degli artt. 3 e 24 Cost., in relazione all’art. 3 della legge 7 agosto
1990, n. 241 – recante «Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi» – e
all’art. 14 d.lgs. n. 81 del 2008 e connesso eccesso di potere per
omessa motivazione; eccesso di potere per omessa motivazione, per
contraddittorietà e per manifesta ingiustizia), prosegue osservando
che, come esposto dal titolare della ditta, sarebbero stati esibiti
agli ispettori del lavoro copie dei contratti di collaborazione
autonoma e occasionale conclusi con i due fattorini (circostanza
risultante dal verbale di accesso ispettivo). Ad onta di ciò il
provvedimento di sospensione, avente conseguenze gravissime sulla vita
di una piccola impresa come quella ricorrente, sarebbe stato adottato
in totale assenza di motivazione, benché questa fosse necessaria avuto
riguardo al carattere discrezionale del provvedimento ed alla volontà
manifestata dalle parti in ordine all’inesistenza del vincolo di
subordinazione.
Il T.A.R. precisa di avere accolto l’istanza diretta ad ottenere la
sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato e di aver poi
trattenuto la causa per la decisione. Argomenta sulla rilevanza della
questione di legittimità costituzionale, sottolineando che l’obbligo
generale di motivazione degli atti amministrativi fu introdotto nel
vigente ordinamento dall’art. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990,
sicché, mentre prima di detta legge il difetto di motivazione integrava
una figura sintomatica di eccesso di potere, oggi configura il vizio di
violazione di legge.
La disposizione censurata, statuendo che «ai provvedimenti del presente
articolo non si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto
1990, n. 241», verrebbe a sottrarre i provvedimenti di sospensione
dell’attività imprenditoriale all’obbligo generale di motivazione.
Pertanto essa, dovendo trovare applicazione nella fattispecie,
impedirebbe al tribunale di conoscere della relativa censura. D’altro
canto, il dedotto difetto di motivazione non potrebbe neppure essere
valutato sotto il profilo dell’eccesso di potere, perché la norma
censurata escluderebbe in modo espresso il relativo obbligo, la cui
mancanza, dunque, non potrebbe costituire sintomo del detto vizio.
Inoltre, ad avviso del Collegio, la questione non sarebbe
manifestamente infondata. Infatti, l’obbligo di motivare i
provvedimenti amministrativi – di cui all’art. 3, comma 1, della legge
n. 241 del 1990 – costituirebbe un principio generale, attuativo sia
dei canoni d’imparzialità e di buon andamento della pubblica
amministrazione, ai sensi dell’art. 97 Cost., sia di altri interessi
costituzionalmente protetti, come il diritto di difesa contro gli atti
della stessa pubblica amministrazione, ai sensi degli artt. 24 e 113
Cost. Di più, il suddetto obbligo sarebbe principio del patrimonio
costituzionale comune dei Paesi europei, desumibile dall’art. 253 del
Trattato sull’Unione europea (oggi art. 296, comma 2, del Trattato di
Lisbona sul funzionamento dell’Unione europea, ratificato dall’Italia
con legge 2 agosto 2008, n.130, ed entrato in vigore il 1° dicembre
2009), che lo estende addirittura agli atti normativi.
I principi d’imparzialità e di buon andamento, di cui all’art. 97
Cost., esigerebbero dunque che, quando l’interesse pubblico si
fronteggia con un interesse privato, l’amministrazione debba dare
conto, attraverso la motivazione, di aver ponderato gli interessi in
conflitto. In altri termini, in caso di provvedimenti discrezionali,
«la motivazione costituisce lo strumento principe a mezzo del quale
effettuare il controllo di legittimità dell’atto, consentendo al
giudice il sindacato sull’iter logico seguito dall’autorità
amministrativa e sul ricorrere dei presupposti del potere in concreto
esercitato».
In questo quadro, l’esclusione degli obblighi di motivazione per i
provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale si porrebbe
anche in contrasto con gli artt. 24 e 113 Cost., in quanto limiterebbe
la tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica
amministrazione.
3. — La parte privata si è costituita nel giudizio di legittimità
costituzionale, insistendo per la declaratoria di illegittimità della
norma censurata.
Essa, nel condividere le argomentazioni del giudice a quo, sottolinea
come la motivazione sia canone fondamentale del diritto non soltanto
italiano ma anche europeo, consentendo la trasparenza dell’azione
amministrativa, la verifica sulla legittimità del provvedimento e
l’esercizio di una concreta tutela giurisdizionale.
L’eliminazione del relativo obbligo, dunque, renderebbe non
controllabile la detta azione, legittimando l’arbitrio. Al riguardo, è
richiamata l’opinione della dottrina che, ben prima della legge n. 241
del 1990, avrebbe individuato negli artt. 24, 97 e 113 Cost. il
fondamento di tale obbligo.
La parte privata ritiene che ai profili sollevati dal T.A.R. andrebbe
aggiunta la violazione dell’art. 3 Cost. sotto l’aspetto
dell’ingiustificata disparità di trattamento tra tipologie di sanzione.
Infatti, l’art. 14 del d.lgs. n. 81 del 2008 costituirebbe un unicum
nel vigente ordinamento, nel quale tutte le fattispecie sanzionatorie
dovrebbero essere motivate.
Inoltre, andrebbero considerate le gravi conseguenze del provvedimento,
caratterizzato da ampi spazi di discrezionalità, tali da impedire ogni
difesa, come emergerebbe anche dalle condizioni richieste per ottenerne
la revoca. Infine la norma, così come formulata, sarebbe diretta a
colpire in primis gli esercizi molto piccoli, in quanto le imprese di
medie o grandi dimensioni ben difficilmente potrebbero subire
contestazioni tali da riguardare il 20 per cento dell’organico.
4. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di
legittimità costituzionale, chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile o infondata.
La difesa dello Stato rileva che la normativa censurata, al fine di
contrastare il lavoro irregolare e di assicurare il rispetto delle
regole di prevenzione nei luoghi di lavoro, disciplina il procedimento
per l’adozione della misura cautelare che dispone la sospensione
dell’attività imprenditoriale, da porre in essere in presenza di
determinati presupposti e di condizioni di effettivo rischio e
pericolo, certificati nel verbale redatto dagli ispettori del lavoro,
fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali e amministrative
vigenti.
La procedura sarebbe diretta al rispetto delle esigenze di celerità e
di non aggravamento del procedimento, con prevalenza dell’interesse
pubblico primario tutelato dall’art. 97 Cost., avuto riguardo alla
particolare finalità della disposizione, per la quale si sarebbe reso
necessario escludere l’applicabilità della legge n. 241 del 1990 allo
scopo di evitare che il provvedimento di sospensione sia adottato
soltanto all’esito del procedimento sanzionatorio.
Ad avviso dell’interveniente, peraltro, un’interpretazione
costituzionalmente orientata dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 81
del 2008, imporrebbe di ritenere che la norma, nella parte in cui
esclude l’applicazione della legge n. 241 del 1990, faccia salvo
l’obbligo di motivazione del provvedimento di sospensione, perché
questo è imposto direttamente dalle norme costituzionali, a garanzia
del diritto del privato di agire in giudizio a tutela delle situazioni
giuridiche ritenute lese da provvedimenti amministrativi.
Il detto obbligo, infatti, discenderebbe dagli artt. 24, 97 e 113
Cost., mentre la mancanza di motivazione avrebbe configurato una figura
sintomatica di eccesso di potere prima ancora che fosse introdotto
l’art. 3 della citata legge.
Sotto tale aspetto, la disposizione censurata non violerebbe i principi
costituzionali invocati dal rimettente, in quanto «il richiamo ai
presupposti di legge accertati nel verbale ispettivo costituisce un
momento del procedimento amministrativo su cui si fonda, sotto il
profilo sostanziale, la legittimità del provvedimento di sospensione
dell’attività imprenditoriale».
Considerato in diritto
1. — Il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria (d’ora in
avanti, T.A.R.), con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita della
legittimità costituzionale – in riferimento agli articoli 97, primo
comma, 24 e 113 della Costituzione – dell’art. 14, comma 1, del decreto
legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’art. 1 della legge 3
agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della
sicurezza nei luoghi di lavoro), nella parte in cui prevede che «ai
provvedimenti del presente articolo non si applicano le disposizioni di
cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241» e, segnatamente, nella parte in
cui esclude l’applicazione ai provvedimenti de quibus dell’art. 3,
comma 1, della legge ora citata (Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi),
concernente l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi.
2. — Il rimettente è chiamato a pronunciare in un giudizio
amministrativo promosso dal titolare di una ditta individuale, avente
ad oggetto la produzione e la vendita di pizze da asporto, nei
confronti del Ministero del lavoro e della previdenza sociale per
l’annullamento di un provvedimento, adottato dalla Direzione
provinciale del lavoro di Genova. Con esso è stata disposta la
sospensione dell’attività imprenditoriale, essendo risultato l’impiego
di due fattorini addetti al recapito delle pizze (pari al 66 per cento
del totale dei lavoratori presenti sul posto di lavoro), non emergenti
dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria. Il giudice a
quo ritiene che la norma censurata, in forza della quale il
provvedimento di sospensione è stato emesso, sia in contrasto con i
parametri costituzionali dianzi indicati, perché l’obbligo di
motivazione dei provvedimenti amministrativi, di cui all’art. 3, comma
1, della legge n. 241 del 1990, costituisce un principio generale, che
attua i canoni costituzionali di imparzialità e buon andamento
dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 97 Cost., nonché la tutela del
diritto di difesa contro gli atti della pubblica amministrazione, ai
sensi degli artt. 24 e 113 Cost.
3. — In via preliminare, si deve rilevare che è impugnato l’art. 14,
comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2008, nel testo originario (in Gazzetta
Ufficiale del 30 aprile 2008, entrato in vigore il 15 maggio 2008).
Detta disposizione è stata dapprima modificata dall’art. 41, comma 11,
del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo
sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la
stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria),
convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e poi
sostituita dall’art. 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 3
agosto 2009, n. 106 (Disposizioni integrative e correttive del decreto
legislativo 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e
della sicurezza nei luoghi di lavoro). Peraltro, con l’ordinanza di
rimessione la norma è censurata nella parte in cui dispone che «Ai
provvedimenti del presente articolo non si applicano le disposizioni di
cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241» e, segnatamente, «nella parte in
cui esclude l’applicazione ai provvedimenti de quibus dell’art. 3,
comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241, per contrasto con gli artt.
97, comma 1, 24 e 113 Cost.». In tale dettato la disposizione non ha
subito modifiche nelle tre versioni suddette. Pertanto, avuto riguardo
alla persistenza del medesimo contenuto precettivo recato in parte qua
dalle menzionate disposizioni, la questione deve ritenersi trasferita
sulla nuova norma, sostitutiva di quella originaria e identica a
questa, addirittura nella stessa formulazione letterale (nei giudizi in
via incidentale: sentenze n. 270 e n. 84 del 1996; nei giudizi in via
principale: sentenze n. 40 del 2010 e n. 237 del 2009).
4. — Ancora in via preliminare, si deve osservare che, per
giurisprudenza costante di questa Corte, l’oggetto del giudizio di
legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle
disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione, non
potendo essere considerati, oltre i limiti in queste fissati, ulteriori
questioni o profili dedotti dalle parti, eccepiti ma non fatti propri
dal giudice a quo oppure diretti ad ampliare o modificare il contenuto
delle stesse ordinanze. Ne deriva che sono inammissibili, e non possono
formare oggetto di esame in questa sede, le deduzioni della parte
privata dirette ad estendere il thema decidendum, non soltanto
attraverso l’invocazione di ulteriori parametri costituzionali, ma
anche con la denunzia di altre disposizioni rispetto a quella
sospettata d’illegittimità costituzionale dal rimettente (ex plurimis:
sentenze n. 50 del 2010, n. 311 e n. 236 del 2009).
5. — L’Avvocatura dello Stato ha dedotto l’inammissibilità della
questione, ma l’eccezione (peraltro priva di un adeguato apparato
argomentativo) non è fondata.
Infatti il T.A.R. ha motivato, sia pure in termini concisi, sulla
rilevanza e sulla non manifesta infondatezza, ed ha aggiunto che il
dettato normativo conduce ad escludere in modo espresso l’obbligo di
motivazione per il provvedimento impugnato nel giudizio a quo, così
rendendo palese, in forma implicita ma chiara, di non poter ricercare
un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata.
Si tratta di valutazioni non implausibili, che consentono di dare
ingresso alla questione di legittimità costituzionale.
6. — Nel merito, essa è fondata.
6.1. — Si deve premettere che l’art. 3, comma 1, della legge n. 241 del
1990 (e successive modificazioni) stabilisce che «ogni provvedimento
amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione
amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale,
deve essere motivato, salvo che nelle ipotesi previste dal comma 2. La
motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni
giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in
relazione alle risultanze dell’istruttoria». Il comma 2, poi, esclude
la necessità della motivazione per gli atti normativi e per quelli a
contenuto generale.
La norma sancisce ed estende il principio, di origine
giurisprudenziale, che in epoca anteriore all’entrata in vigore della
legge n. 241 del 1990 aveva già affermato la necessità della
motivazione, con particolare riguardo al contenuto degli atti
amministrativi discrezionali, nonché al loro grado di lesività rispetto
alle situazioni giuridiche dei privati, individuando nella
insufficienza o mancanza della motivazione stessa una figura
sintomatica di eccesso di potere.
L’obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi è diretto a
realizzare la conoscibilità, e quindi la trasparenza, dell’azione
amministrativa. Esso è radicato negli artt. 97 e 113 Cost., in quanto,
da un lato, costituisce corollario dei principi di buon andamento e
d’imparzialità dell’amministrazione e, dall’altro, consente al
destinatario del provvedimento, che ritenga lesa una propria situazione
giuridica, di far valere la relativa tutela giurisdizionale.
6.2. — In questo quadro, la disposizione censurata non è conforme ai
parametri costituzionali sopra indicati.
Infatti essa, escludendo in modo espresso l’applicabilità dell’intera
legge n. 241 del 1990 ai provvedimenti di sospensione dell’attività
imprenditoriale, previsti dall’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 81 del
2008, nel testo sostituito dall’art. 11, comma 1, lettera a), del
d.lgs. n. 106 del 2009, rende non applicabile anche a tali
provvedimenti l’obbligo di motivazione di cui all’art. 3, comma 1, di
detta legge, consentendo così all’organo o ufficio procedente di non
indicare «i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno
determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle
risultanze dell’istruttoria».
Restano, dunque, elusi i principi di pubblicità e di trasparenza
dell’azione amministrativa, pure affermati dall’art. 1, comma 1, della
legge n. 241 del 1990, ai quali va riconosciuto il valore di principi
generali, diretti ad attuare sia i canoni costituzionali di
imparzialità e buon andamento dell’amministrazione (art. 97, primo
comma, Cost.), sia la tutela di altri interessi costituzionalmente
protetti, come il diritto di difesa nei confronti della stesse
amministrazione (artt. 24 e 113 Cost.; sul principio di pubblicità,
sentenza n. 104 del 2006, punto 3.2 del Considerato in diritto). E
resta altresì vanificata l’esigenza di conoscibilità dell’azione
amministrativa, anch’essa intrinseca ai principi di buon andamento e
d’imparzialità, esigenza che si realizza proprio attraverso la
motivazione, in quanto strumento volto ad esternare le ragioni e il
procedimento logico seguiti dall’autorità amministrativa. Il tutto in
presenza di provvedimenti non soltanto a carattere discrezionale, ma
anche dotati di indubbia lesività per le situazioni giuridiche del
soggetto che ne è destinatario.
Né può condividersi l’argomento della difesa dello Stato, secondo cui
la previsione normativa sarebbe diretta «al rispetto delle esigenze di
celerità e di non aggravamento del procedimento, con prevalenza
dell’interesse pubblico primario tutelato dall’art. 97 Cost. in
considerazione della particolare finalità della disposizione, per la
quale l’esclusione dell’applicabilità della legge n. 241 del 1990 si è
resa necessaria per evitare che il provvedimento di sospensione venga
adottato solo all’esito del procedimento sanzionatorio».
Invero, la giusta e doverosa finalità di tutelare la salute e la
sicurezza dei lavoratori, nonché di contrastare il fenomeno del lavoro
sommerso e irregolare, non è in alcun modo compromessa dall’esigenza
che l’amministrazione procedente dia conto, con apposita motivazione,
dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che ne hanno
determinato la decisione, con riferimento alle risultanze
dell’istruttoria.
Pertanto, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale
dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2008, come sostituito
dall’art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 106 del 2009, nella
parte in cui, stabilendo che ai provvedimenti di sospensione
dell’attività imprenditoriale previsti dalla citata norma non si
applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241,
esclude l’applicazione ai medesimi provvedimenti dell’art. 3, comma 1,
della citata legge n. 241 del 1990.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 1, del
decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’art. 1 della
legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e di
sicurezza nei luoghi di lavoro), come sostituito dall’articolo 11,
comma 1, lettera a) del decreto legislativo 3 agosto 2009, n. 106
(Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 9 aprile
2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei
luoghi di lavoro), nella parte in cui, stabilendo che ai provvedimenti
di sospensione dell’attività imprenditoriale previsti dalla citata
norma non si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990,
n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di
diritto di accesso ai documenti amministrativi), esclude l’applicazione
ai medesimi provvedimenti dell’articolo 3, comma 1, della legge n. 241
del 1990.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, il 2 novembre 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 novembre 2010.