C'era una volta l'atto oggetto del giudizio: l'accertamento autonomo del rapporto conquista il processo amministrativo. Consiglio di Stato, Sezione V, 17 febbraio 2009, n. 717.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Sesta)
ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 9524/2003 proposto dal
COMUNE DI VERONA, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso
dall’Avv.
Giovanni R. Caineri e dall’avv. prof. Marcello Clarich, elettivamente
domicialiato presso lo studio
di quest’ultimo in Roma, Piazza Montecitorio 115;
contro
LUCCHI PAOLA, rappresentata e difesa dagli avv.ti Donatella Gobbi e Stefano
Gattamelata,
elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via di Monte
Fiore n. 22;
RITA CAPPELLETTI, non costituitasi in giudizio;
e nei confronti di
SCUDELLARI GRAZIELLA e LUCCHI RENATA, rappresentate e difese dagli avv.ti Gian
Paolo
Sardo Albertini e Luigi Manzi, elettivamente domiciliate presso lo studio di
quest’ultimo, in Roma,
via Federico Confalonieri, n. 5;
per l’annullamento e/o la riforma
della sentenza del T.a.r. Veneto, sez. II, n. 3045/2003, del 20/6/2003 resa tra
le parti;
Visto l’atto di appello con i relativi allegati;
Vista la memoria di costituzione in giudizio con appello incidentale di
Scudellari Graziella e Lucchi
Renata;
Vista la memoria di costituzione di Lucchi Paola;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 25 novembre 2008, relatore il Consigliere Roberto
Giovagnoli ed uditi,
altresì, gli avvocati Gattamelata e l’avv. Di Mattia per delega dell’avv. Manzi;
FATTO E MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Le signore Paola Lucchi e Rita Cappelletti, con ricorso al T.a.r. Veneto,
hanno chiesto:
- l’annullamento della D.I.A. n. 104741/2001, presentata al Comune di Verona il
5.1.22001 dalle
signore Graziella Scudellari e Renata Lucchi per la realizzazione di posti auto,
cancello carraio e
ingresso pedonale sull’area condominiale scoperta dell’edificio sito in Verona,
via Col. Fincato n.
182;
- l’annullamento di ogni altro atto conseguente e presupposto, compresa
l’autorizzazione
paesaggistica rilasciata dal dirigente del settore edilizia privata con decreto
B.A. n. 1038/200 del
18.1.2001, il parere del settore traffico del Comune di Verona, il parere
28.12.2000 della
Commissione edilizia comunale integrata di cui al verbale n. 54 del 28.12.2000;
- in ogni caso, la pronuncia di illegittimità del comportamento tenuto dal
Comune di Verona sulla
d.i.a. presenta il 5.12.2001 e sull’intervento edilizio programmato;
- il risarcimento dei danni, anche in forma specifica.
2. Con la sentenza indicata in epigrafe, il T.a.r. Veneto ha accolto il ricorso,
ritenendo che le opere
realizzate, pur rientrando fra quelle astrattamente soggette a d.i.a.,
risultavano, in concreto, di
rilevante entità e tali comunque da alterare in modo sensibile il territorio.
In particolare, la sentenza appellata, respingendo l’eccezione di
inammissibilità del ricorso (fondata
sulla considerazione che la d.i.a. è un atto privato, come tale non impugnabile
innanzi al Giudice
amministrativo), ha affermato che la d.i.a. ha natura provvedimentale, perché è
un titolo abilitativo
che proviene dall’Amministrazione, sia pure in forma silenziosa o per inerzia.
2.1. In ogni caso, ha aggiunto il Tribunale, anche a voler ritenere la d.i.a. un
atto privato, il ricorso
non sarebbe comunque inammissibile, in quanto le ricorrenti hanno chiesto, oltre
all’annullamento
del titolo, anche l’accertamento dell’illegittimità del comportamento tenuto
dalla p.a. in merito alla
d.i.a. medesima.
2.2. Il T.a.r. ha poi annullato anche il nulla osta ambientale, ritenendolo
privo della necessaria
motivazione specificamente riferita all’entità e alle caratteristiche dell’opera
e alla sua incidenza sul
bene tutelato.
3. Avverso tale sentenza ha proposto appello il Comune di Verona, deducendo i
seguenti motivi:
1) l’irricevibilità del ricorso di primo grado, perché proposto oltre i sessanta
giorni da quanto le
ricorrenti erano a conoscenza del progetto presentato dalle signore Scudellari e
Lucchi e,
comunque, oltre i sessanta giorni dalla conoscenza dell’avvenuto inizio dei
lavori;
2) l’inammissibilità del ricorso di primo grado perché avente ad oggetto la
d.i.a. che, in quanto atto
privato, non sarebbe impugnabile;
3) nel merito, la riconducibilità dell’intervento edilizio tra quelli soggetti a
d.i.a. sul presupposto che
le opere realizzate, consistenti in una recinzione, nella pavimentazione del
piazzale interno con
delimitazione degli spazi a parcheggio ed interventi sul muro di cinta di
contenimento, rientrassero
pacificamente tra quelle indicate dall’art. 2, comma 60, legge n. 662 del 1996;
4) con riferimento al nulla osta paesaggistico ambientale, ha dedotto che nei
casi di parere positivo,
l’assenza di motivi che contrastino con i beni sottoposti a vincolo può essere
meramente enunciata,
senza necessità di ulteriori argomentazioni.
4. Si sono costituite in giudizio le signore Scudellari Graziella e Lucchi
Renata che hanno proposto
anche appello incidentale improprio contenente censure in gran parte analoghe a
quelle già svolte
dal Comune di Verona nell’appello principale.
In particolare, le appellanti incidentali hanno dedotto:
1) che la d.i.a. è un atto privato e non un provvedimento impugnabile e che
l’unica tutela consentita
al terzo che si ritenga leso dall’attività da altri svolta sulla base della
d.i.a. è quella di instaurare un
giudizio avverso il silenzio-rifiuto;
2) che le opere consistevano nella realizzazione di posti auto, cancello carraio
ed ingresso pedonale,
in perfetta corrispondenza con quanto prevede l’art. 2, comma 60, l. n.
662/1996;
3) con riferimento al difetto di motivazione del nulla osta ambientale, che una
motivazione adeguata
è necessaria quando viene adottato dall’Amministrazione un provvedimento
negativo alla
realizzazione dell’opera in una zona soggetta a vincolo, mentre quando il nulla
osta viene rilasciato
è sufficiente una motivazione anche succinta.
5. Si è costituita in giudizio, chiedendo la reiezione di entrambi gli appelli,
una delle originarie
ricorrenti, la signora Lucchi Paola.
6. All’udienza del 25 novembre 2008, la causa è stata trattenuta per la
decisione.
7. In via preliminare, al fine di decidere sulle eccezioni di inammissibilità e
tardività dell’originario
ricorso riproposte, con appositi motivi, negli appelli principale e incidentale,
occorre esaminare la
questione relativa alla natura giuridica della d.i.a..
Il tema della natura giuridica della d.i.a., e quello correlato della tutela dei
terzi che si oppongono ad
intervento edilizio assentito a seguito di d.i.a., ha sempre presentato profili
teorici problematici.
7.1. Secondo un primo orientamento, la d.i.a. si tradurrebbe direttamente
nell'autorizzazione
implicita all'effettuazione dell'attività in virtù di una valutazione legale
tipica, con la conseguenza
che i terzi potrebbero agire innanzi al giudice per chiedere l'annullamento
della determinazione
formatasi in forma tacita (cfr., tra le più recenti, Cons. Stato, sez. IV, 25
novembre 2008 , n. 5811;
Cons. Stato, sez. IV, 29 luglio 2008, n. 3742; Cons. Stato, sez. IV, 12
settembre 2007 , n. 4828;
Cons. Stato, sez. VI, 05 aprile 2007 , n. 1550).
Si tratterebbe, quindi, di un istituto del tutto peculiare, comunque
assimilabile ad una istanza
autorizzatoria, che, con il decorso del términe di legge, provoca la formazione
di un “titolo”, cioè di
un provvedimento tacito di accoglimento di una siffatta istanza, che rende
lecito l'esercizio
dell'attività, (in questi termini, Cons. Stato, sez. IV, 25 novembre 2008, n.
5811).
Secondo questa impostazione, la d.i.a. non è uno strumento di liberalizzazione
dell'attività, ma
rappresenta una semplificazione procedimentale che consente al privato di
conseguire un titolo
abilitativo, sub specie dall'autorizzazione implicita di natura provvedimentale,
a seguito del decorso
di un termine (30 giorni) della presentazione della denunzia.
7.2. Diversi gli argomenti invocati a sostegno di questa posizione.
7.2.1. In primo luogo, un forte indizio a favore della tesi provvedimentale è
oggi offerto dalla
previsione espressa del potere dell'Amministrazione di assumere determinazioni
in via di autotutela
ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies (v. il comma 3 del nuovo art.
19): tale riferimento
all’autotutela sembra, invero, presupporre un provvedimento, o comunque un
titolo, su cui sono
destinati ad incidere i provvedimenti di revoca o di annullamento, quali atti di
secondo grado.
Come è stato rilevato, inoltre, se è ammesso l'annullamento d’ufficio,
parimenti, e tanto più, deve
essere consentita l'azione di annullamento davanti al giudice amministrativo
(Cons. Stato, sez. VI,
05 aprile 2007 , n. 1550).
7.2.2. Ulteriori elementi a sostegno della natura provvedimentale si ricavano,
con particolare
riferimento alla d.i.a in materia edilizia, da alcune norme contenute nel testo
unico dell’edilizia
(approvato con D.P.R. n. 380/2001).
Viene, in primo luogo, in considerazione il comma 2-bis dell'art. 38 che,
prevedendo, la possibilità
di “accertamento dell'inesistenza dei presupposti per la formazione del titolo”,
equipara detta ipotesi
ai casi di “permesso annullato”, avallando l’idea che la d.i.a. sia un titolo
suscettibile di
annullamento
7.2.3. Sulla stessa linea si pone l'art. 39, comma 5-bis, che consente
l’annullamento straordinario
della d.i.a. da parte della Regione, confermando, così, che la d.i.a. viene
considerata dal legislatore
come un titolo suscettibile di essere annullato (in sede amministrativa e,
quindi, a maggior ragione,
in sede giurisdizionale).
7.2.4. Rilevante, infine, è l’art. 22 il quale stabilisce che il confine tra
l’ambito di operatività della
d.i.a. e quello del permesso di costruire non sia fisso: le Regioni possono
ampliare o ridurre l'ambito
applicativo dei due titoli abilitativi, ferme restando le sanzioni penali (art.
22, comma 4), ed è
comunque fatta salva la facoltà dell'interessato di chiedere il rilascio di
permesso di costruire per la
realizzazione degli interventi assoggettati a d.i.a. (art. 22, comma 7).
Per la tesi in esame, una simile previsione dimostrerebbe che d.i.a. e permesso
di costruire sono di
titoli abilitativi di analoga natura, che si diversificano solo per il
procedimento da seguire. Sarebbe,
allora, irragionevole, oltre che lesivo dell'effettività della tutela
giurisdizionale, pensare che il terzo
controinteressato incontri limiti diversi a seconda del tipo di titolo
abilitativo, che può dipendere da
una scelta della parte o da una diversa normativa regionale.
Sarebbe, invece, preferibile ritenere che il formarsi di un determinato titolo
abilitativo, o di un altro,
non comporti alcun cambiamento sotto il profilo della tutela del terzo e del
conseguente intervento
del giudice, in alcun modo limitato dalla decadenza del potere di intervento
dell'amministrazione.
7.3. La tesi appena esposta, seppure spinta dal pregevole intento di evitare che
l’introduzione della
d.i.a. possa avere l’effetto di diminuire le possibilità di tutela
giurisdizionale offerte al terzo
controinteressato, si presta, tuttavia, ad alcune considerazioni critiche.
7.3.1. Innanzitutto, dalla formulazione letterale dell’art. 19 l. n. 241/1990
(che rappresenta la norma
generale cui fare riferimento per la disciplina e la ricostruzione
dell’istituto) emerge in maniera
chiara come la d.i.a. venga dal legislatore nettamente contrapposta al
provvedimento
amministrativo: è prevista proprio la sostituzione con una dichiarazione del
privato di ogni
autorizzazione comunque denominata (il cui rilascio dipenda esclusivamente
dall’accertamento dei
requisiti o presupposti di legge o di atti amministrativi a contenuto generale,
e non sia previsto
alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione
per il rilascio).
Già da questo primo dato normativo, si evince, quindi, che la principale
caratteristica e la vera
novità dell’istituto consiste proprio nella sostituzione dei tradizionali
modelli procedimentali in
tema di autorizzazione con un nuovo schema ispirato alla liberalizzazione delle
attività economiche
private, con la conseguenza che per l’esercizio delle stesse non è più
necessaria l’emanazione di un
titolo provvedimentale di legittimazione.
7.3.2. Come è stato bene evidenziato in dottrina, per effetto della previsione
della d.i.a. la
legittimazione del privato all’esercizio dell’attività non è più fondata,
infatti, sull’atto di consenso
della P.A., secondo lo schema “norma-potere-effetto”, ma è una legittimazione ex
lege, secondo lo
schema “norma-fatto-effetto”, in forza del quale il soggetto è abilitato allo
svolgimento dell’attività
direttamente dalla legge, la quale disciplina l’esercizio del diritto eliminando
l’intermediazione del
potere autorizzatorio della P.A.
A seguito della denuncia, il soggetto pubblico verifica la sussistenza dei
presupposti e dei requisiti
di legge richiesti. Gli unici provvedimenti rinvenibili nella fattispecie sono
quelli meramente
eventuali che la P.A. può emanare nel termine di legge per impedire la
prosecuzione dell’attività o
per imporre la rimozione degli effetti, ovvero quelli adottati in “autotutela”
successivamente alla
scadenza di questo termine.
Il potere di verifica di cui dispone l’amministrazione, a differenza di quanto
accade nel regime a
previo atto amministrativo, non è finalizzato all’emanazione dell’atto
amministrativo di consenso
all’esercizio dell’attività, ma al controllo, privo di discrezionalità, della
corrispondenza di quanto
dichiarato dall’interessato rispetto ai canoni normativi stabiliti per
l’attività in questione.
Con la d.i.a, quindi, al principio autoritativo si sostituisce il principio
dell’autoresponsabiltà
dell’amministrato che è legittimato ad agire in via autonoma valutando
l’esistenza dei presupposti
richiesti dalla normativa in vigore.
La d.i.a., in definitiva, è un atto di un soggetto privato e non di una pubblica
amministrazione, che
ne è invece destinataria, e non costituisce, pertanto, esplicazione di una
potestà pubblicistica.
7.3.3. Del resto, la tesi del provvedimento amministrativo che si forma
tacitamente si scontra anche
con la considerazione che il silenzio-assenso rappresenta pur sempre rimedio
all’inerzia della P.A.
e, pertanto, presuppone il potere-dovere di quest’ultima di provvedere con atto
formale sull’istanza
del privato, accogliendola o respingendola, potere-dovere che, a fronte della
denuncia di inizio di
attività, l’Amministrazione non possiede affatto. Sicché, mentre a fondamento
del valore
provvedimentale del silenzio assenso si pone una domanda dell’interessato, a
fondamento della
d.i.a. vi è una mera dichiarazione o denuncia attestante l’esistenza delle
condizioni richieste dalla
legge per l’esercizio dell’attività.
L’Amministrazione non rilascia nessun atto di assenso dovendo solo verificare la
sussistenza dei
prescritti requisiti affinché l’interessato possa autonomamente intraprendere la
preannunciata
attività quale espressione del suo diritto come legislativamente prefigurato
7.3.4. E’ appena il caso di aggiungere che se la d.i.a. fosse davvero un atto
destinato ad avviare un
procedimento destinato a concludersi con un provvedimento di accoglimento per
silentium, tra d.i.a.
e silenzio-assenso sarebbe arduo cogliere una sostanziale differenza. Al
contrario, la legge n.
241/1990 delinea in due articoli differenti, il 19 e il 20, così mostrando di
voler tenere distinti i due
istituti e di attribuire loro una diversa funzione: mentre con la d.i.a. si
attua una liberalizzazione
dell’attività privata non più soggetta ad autorizzazione, il silenzio assenso
non incide in senso
abrogativo sul regime autorizzatorio, ma costituisce una mera semplificazione
procedimentale,
prevedendo una modalità di conseguimento dell’autorizzazione equipollente ad un
provvedimento
esplicito di accoglimento.
7.4. A fronte di queste considerazioni sistematiche, perdono in gran parte il
loro peso gli opposti
argomenti invocati a sostegno della natura provvedimentale della d.i.a.
Essi, come si è visto, si fondano soprattutto sulla constatazione che il
legislatore fa più volte
riferimento all’esercizio di un potere di autotutela (normalmente di
annullamento di ufficio) che ha
per oggetto proprio la denuncia di inizio di attività. Ora, poiché l’autotutela
decisoria è attività
amministrativa di secondo grado, che presuppone l’esistenza di un atto
amministrativo da
rimuovere, da tali previsioni sembra facile argomentare nel senso che la d.i.a.
sia un provvedimento.
7.4.1. In realtà, il riferimento compiuto dal legislatore al potere di
autotutela non deve essere
enfatizzato.
L’art. 19 l. n. 241/1990, che richiama gli artt. 21-quinquies e 21-nonies, e le
norme del T.U. edilizia
sopra citate che prevedono l’annullamento d’ufficio della d.i.a., non hanno, in
realtà, voluto sancire
implicitamente la natura provvedimentale di tale fattispecie.
Evocando l’autotutela (e, in particolare, l’annullamento d’ufficio), il
legislatore, più che prendere
posizione sulla natura giuridica dell’istituto, ha voluto solo chiarire che,
anche dopo la scadenza del
termine perentorio di trenta giorni per l’esercizio del potere inibitorio, la
P.A. conserva un potere
residuale di autotutela, da intendere, però, come potere sui generis, che si
differenzia della consueta
autotutela decisoria proprio perché non implica un’attività di secondo grado
insistente su un
procedente provvedimento amministrativo.
Come è stato bene evidenziato in dottrina, il riferimento agli artt.
21-quinquies e 21-nonies l. n.
241/1990, contenuto nella l. n. 241/1990 consente alla P.A. di esercitare un
potere che tecnicamente
non è di secondo grado, in quanto non interviene su una precedente
manifestazione di volontà
dell’amministrazione, ma che con l’autotutela classica condivide soltanto i
presupposti e il
procedimento. In questo senso, deve ritenersi che il richiamo agli artt. 21
quinquies e 21 nonies
vada riferito alla possibilità di adottare non già atti di autotutela in senso
proprio, ma di esercitare i
poteri di inibizione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti,
nell’osservanza dei presupposti
sostanziali e procedimentali previsti dal tali norme.
In tal modo, il legislatore, nel recepire l’orientamento giurisprudenziale che
ammetteva la
sussistenza in capo alla P.A. di un potere residuale di intervento anche dopo la
scadenza dl termine,
si fa pure carico di tutelare l’affidamento che può essere maturato in capo al
privato per effetto del
decorso del tempo.
Non vi è dubbio, invero, che la d.i.a., pur essendo un atto che proviene da un
privato, sia comunque
suscettibile, a causa del decorso del tempo e del mancato tempestivo esercizio
del potere inibitorio
da parte della P.A., di consolidare, analogamente a quanto potrebbe fare un
provvedimento
espresso, una affidamento meritevole di protezione.
Tale affidamento non è certamente così forte da escludere qualsiasi potere di
intervento da parte
della P.A., anche perché altrimenti per effetto della d.i.a., si andrebbe a
consolidare una posizione
più stabile rispetto a quella che deriva del provvedimento autorizzatorio (il
quale, ricorrendo le
condizioni di legge, può essere appunto rimosso in via di autotutela).
Ed allora, superando anche i dubbi interpretativi in passato da qualcuno
sollevati circa l’esistenza di
un residuo potere di intervento da parte della p.a. una volta scaduto il termine
perentorio di 30 gg.,
la legge n. 80/2005, nel riformulare l’art. 19 l. n. 241/1990, ha precisato che
la P.A. può vietare lo
svolgimento dell’attività ed ordinare l’eliminazione degli effetti già prodotti
anche dopo che è
scaduto il termine perentorio. Lo potrà fare, però, soltanto se vi sono i
presupposti per l’esercizio
del potere di autotutela (in particolare dell’annullamento d’ufficio) e, quindi,
entro un ragionevole
lasso di tempo, dopo aver valutato gli interessi in conflitto e sussistendone le
ragioni di interesse
pubblico.
7.4.2. Il richiamo contenuto nell’art. 19 all’autotutela decisoria (o meglio
alle norme che la
disciplinano e ne fissano le condizioni di esercizio) va, quindi,
ridimensionato. Quel riferimento,
anzi, potrebbe addirittura essere invocato contro la tesi del titolo abilitativo
tacito: perché se la d.i.a.
fosse veramente un provvedimento non vi sarebbe nemmeno bisogno di prevedere un
potere di
annullamento d’ufficio o di revoca, essendo a tal fine sufficiente le norma
generali di cui agli artt.
21-quinquies e 21-nonies.
7.5. Appurato che la d.i.a. non è un provvedimento amministrativo a formazione
tacita, ma un atto
privato, si tratta ora di capire quale siano gli strumenti di tutela a
disposizione del terzo che si
ritenga leso.
7.6. Alcuni ritengono che il terzo possa agire con lo strumento del
silenzio-rifiuto; ed è questa la
tesi sostenuta dagli appellanti principale e incidentale.
Secondo questa impostazione, il terzo, decorso il termine per l’esercizio del
potere inibitorio senza
che la P.A. sia intervenuta, sarebbe legittimato a richiedere
all’Amministrazione di porre in essere i
provvedimenti di “autotutela” previsti, attivando in caso di inerzia il rimedio
di cui all’art. 21-bis l.
n. 1034/1971.
Questa soluzione non è, tuttavia, condivisibile, perché finisce per
compromettere notevolmente la
possibilità di tutela del terzo.
Innanzitutto, questi avrebbe l’onere, prima di agire in giudizio, di presentare
apposita istanza
sollecitatoria alla P.A.
Inoltre, e soprattutto, l’istanza sarebbe diretta a sollecitare non il potere
inibitorio di natura vincolata
(che si estingue decorso il termine perentorio di 30 gg), ma il c.d. potere di
autotutela evocato
tramite il richiamo agli artt. 21-quinquies e 21-nonies.
Tale potere, tuttavia, è ampiamente discrezionale, dovendo l’Amministrazione
prima di intervenire
valutare gli interessi in conflitto (tenendo conto anche dell’affidamento
ingeneratosi in capo al
denunciante) e la sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale, che
non coincide con il
mero ripristino della legalità violata.
Nell’eventuale giudizio avverso il silenzio-rifiuto, quindi, il G.A. non
potrebbe che limitarsi ad una
mera declaratoria dell’obbligo di provvedere, senza poter predeterminare il
contenuto del
provvedimento da adottare (Cons. Stato, sez. V, 9 ottobre 2007, n. 5271), e
tutto ciò renderebbe
ancor più lunga e faticosa la tutela del terzo.
7.7. Al contrario, per individuare gli strumenti di tutela che il terzo può
attivare, si deve partire da
una premessa di fondo, che scaturisce dal principio costituzionale
dell’effettività della tutela
giurisdizionale: quella secondo cui la sostituzione del provvedimento espresso
con la d.i.a. non può
avere l’effetto di diminuire le possibilità di tutela giurisdizionale offerte al
terzo contro interessato,
costringendolo negli angusti limiti del giudizio contro il silenzio-rifiuto.
Gli strumenti di tutela giurisdizionale del terzo debbono rimanere
sostanzialmente immutati anche
laddove l’intervento edilizio (o, più ingenerale, l’attività svolta) trovi
fondamento nella d.i.a.
anziché nel provvedimento.
Va, quindi, certamente condivisa la preoccupazione di assicurare al terzo
l’effettività della tutela
giurisdizionale, preoccupazione che, come si è visto, sta alla base della tesi
che ammette l’azione di
annullamento della d.i.a. innanzi al Giudice amministrativo. Tale preoccupazione
non può, tuttavia,
condurre allo stravolgimento della natura dell’istituto, trasformando quella che
è una dichiarazione
privata in un atto dell’amministrazione o in una fattispecie ibrida che nasce
privata e. diventa
pubblica per effetto del tempo trascorso e del silenzio.
L’effettività della tutela deve essere assicurata al terzo mediante strumenti
diversi dall’azione di
annullamento, che siano perfettamente compatibili con la natura privatistica
della d.i.a.
7.8. Tale strumento di tutela non può, allora, che essere identificato
nell’azione di accertamento
autonomo che il terzo può esperire innanzi al giudice amministrativo per sentire
pronunciare che
non sussistevano i presupposti per svolgere l’attività sulla base di una
semplice denuncia di inizio di
attività. Emanata la sentenza di accertamento, graverà sull’Amministrazione
l’obbligo di ordinare la
rimozione degli effetti della condotta posta in essere dal privato, sulla base
dei presupposti che il
giudice ha ritenuto mancanti.
7.8.1. Non si ignora che in ordine all’ammissibilità innanzi al Giudice
amministrativo di un’azione
di accertamento autonomo sono stati prospettati numerosi dubbi, sia in dottrina,
sia in
giurisprudenza.
Sono dubbi che nascono, innanzi tutto, dalla considerazione secondo cui un
giudizio di
accertamento sarebbe ammissibile solo in una controversia tra soggetti in
posizione di parità e
rispetto ai quali il giudice detiene il potere di fissare la disciplina puntuale
del rapporto concreto.
Quando, viceversa, sussiste un soggetto in posizione di supremazia (la Pubblica
Amministrazione),
la soluzione del conflitto di interessi sarebbe demandata a tale soggetto, che
detiene e gestisce il
potere, ed il sindacato del giudice, in tali casi, non può che assumere la
struttura del controllo
successivo dei modi di esercizio del potere, laddove, viceversa, un giudizio di
accertamento del
rapporto comporrebbe una inammissibile sostituzione all’Amministrazione nella
titolarità e nella
gestione del potere.
Ancora, ulteriori ostacoli all’ammissione dell’azione di accertamento autonomo
nel processo
amministrativo derivano, secondo l’insegnamento tradizionale: a) dalla
negazione, invalsa
soprattutto in passato, che l’interesse legittimo sia una posizione giuridica
sostanziale avente la
stessa dignità del diritto soggettivo; b) dalla mancanza di un riconoscimento
espresso dell’azione di
accertamento da parte del legislatore, a differenza di quanto accade negli
ordinamenti di altri Paesi
che tale azione conoscono (par. 43 della VGeO tedesca); c) dalla tradizionale
configurazione del
giudizio amministrativo come giudizio sull’atto, e non sul rapporto, nell’ambito
del quale, pertanto,
al di là dei casi espressamente previsti dalla legge, l’unica azione proponibile
sarebbe quella volta
ad ottenere l’annullamento del provvedimento illegittimo; d) dalla limitazione
dei mezzi di prova
utilizzabili dal giudice amministrativo, il quale, pertanto, non sarebbe in
grado, per la povertà dei
suoi poteri istruttori, di compiere un accertamento pieno del rapporto
controverso.
7.9. L’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’ultimo decennio ha
determinato il
superamento di una così rigida chiusura all’azione di accertamento del processo
amministrativo,
offendo, al contempo, numerosi argomenti che depongono a favore di una diversa
soluzione.
7.9.1. In primo luogo, come hanno anche recentemente evidenziato le Sezioni
Unite della Corte di
Cassazione con la nota sentenza 23 dicembre 2008, n. 30254, “sono ormai
definitivamente
tramontate precedenti ricostruzioni della figura dell’interesse legittimo e
della giurisdizione
amministrativa, che il primo configuravano come situazione funzionale a rendere
possibile
l’intervento degli organi della giustizia amministrativa, e della seconda
predicavano la natura di
giurisdizione di tipo oggettivo, e dunque di mezzo direttamente volto a rendere
possibile, attraverso
una nuova determinazione amministrativa, il ripristino della legalità violata e
solo indirettamente a
realizzare l’interesse del privato”.
Nella specie va inoltre considerato che, la nozione di interesse legittimo serve
anche a
contraddistinguere il nucleo di facoltà, inerenti al diritto di proprietà il cui
esercizio è ex lege
subordinato al potere conformativo della p.a.. Più propriamente alcune modalità
di godimento
(facoltà) a seguito dell’intervenuta modifica legislativa non devono essere
pregiudizialmente
assentite dalla p.a., ma presuppongono l’invio di una informativa (d.i.a.),
assistita da un progetto.
Trascorso infruttuosamente il termine di 30 giorni, l’agere licere del privato,
titolare del bene, si
riespande pienamente.
Rientra nel potere della p.a. accertare la corretta utilizzazione della misura
liberalizzatrice da parte
del privato e di intervenire tempestivamente nei casi di suo uso distorto.
Ciò significa che la nozione di interesse legittimo, utilizzata originariamente
per contrassegnare
situazioni sostanziali che non raggiungevano la soglia di tutela propria del
diritto soggettivo, serve
oggi anche a contrassegnare il nucleo di facoltà che, all’interno del diritto
soggettivo, possono
essere esercitate solo a seguito del positivo esercizio da parte della p.a. dal
suo potere conformativo.
In questi casi, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario sulla
titolarità del diritto, quello
amministrativo giudica dal suo contenuto, del suo grado di tutela, a seconda che
venga o meno in
conflitto con interessi di rilevanza pubblicistica (urbanistica, ambiente,
paesaggio ecc.)
In tal senso si è chiaramente espressa la Corte Costituzionale con la sentenza 6
luglio 2004 n. 204.
La Corte ha sottolineato che l’art. 24 della Costituzione assicura agli
interessi legittimi “le
medesime garanzie assicurate ai diritti soggettivi quanto alla possibilità di
farli valere davanti al
giudice ed alla effettività della tutela che questi deve loro accordare”.
La stessa attribuzione al Giudice amministrativo del potere di disporre il
risarcimento del danno
ingiusto anche nell’ambito della competenza generale di legittimità (ex art. 7
della legge n. 205 del
2000) affonda le sua radici, secondo la Corte, nell’art. 24 della Costituzione
“il quale garantendo
alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed
effettiva tutela,
implica che il giudice sia munito di adeguati poteri”.
Anche la Corte Costituzionale ha dato, dunque, il proprio avallo alla piena
parificazione tra diritti
soggettivi e interessi legittimi quanto a possibilità di farli valere in
giudizio, all’effettività della
tutela e all’adeguatezza dei poteri del giudice.
Come attenta dottrina non ha mancato di rilevare, questo criterio interpretativo
generale deve
presiedere alla ricostruzione delle disposizioni legislative oggi vigenti in
materia di processo
amministrativo e, per quel che più rileva in questa sede, deve rappresentare il
punto di partenza
nella risoluzione della questione relativa all’ammissibilità di una azione di
accertamento nel
processo amministrativo da parte del terzo che si ritenga leso dell’attività
iniziata sulla base della
d.i.a.
7.9.2. In senso contrario all’azione atipica di accertamento, non pare
risolutiva nemmeno la
tradizionale considerazione secondo cui il giudizio amministrativo è un giudizio
sull’atto e non sul
rapporto.
In primo luogo, tale affermazione riguarda il giudizio di annullamento (che
presuppone che sia stato
emanato un provvedimento di cui si contesta l’illegittimità); non può invece
assumere rilevanza
nell’ambito di un giudizio che non mira alla eliminazione del provvedimento, ma
vuole, come nel
caso di specie, ottenere un accertamento giurisdizionale (di inesistenza dei
presupposti della d.i.a.)
al fine di sollecitare il successivo esercizio del potere amministrativo. In
questo caso, mancando il
provvedimento da scrutinare, l’oggetto del giudizio non può che essere il
rapporto che, secondo il
ricorrente dovrebbe essere poi recepito nel successivo provvedimento repressivo.
In secondo luogo, anche la tradizionale configurazione del giudizio di
annullamento come giudizio
sull’atto (e non sul rapporto) non è più così pacifica come era in passato.
Citando ancora la recente sentenza delle Sezioni Unite n. 30254/2008, più indici
normativi
testimoniano la trasformazione in atto dello stesso giudizio sulla domanda di
annullamento, da
giudizio sul provvedimento a giudizio sul rapporto. Basti pensare:
all’impugnazione con motivi
aggiunti dei provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti,
connessi all’oggetto
del ricorso (art. 21, primo comma, l. Tar, modificato dall’art. 1 l. n.
205/2000); al potere del giudice
di negare l’annullamento dell’atto impugnato per vizi di violazione di norme sul
procedimento,
quando giudichi palese, per la natura vincolata del provvedimento, che il suo
contenuto non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato (art. 21-octies l. n.
241/1990, introdotto dall’art.
21 bis l. n. 15/2005); al potere del giudice amministrativo di conoscere la
fondatezza dell’istanza
nel giudizio avverso il silenzio-rifiuto (art. 2, comma 5, l. n. 241/1990, come
modificato dalla l. n.
80/2005 in sede di conversione del d.l. n. 35/2005).
Il giudizio amministrativo, rimane perciò, un giudizio sull’atto, ma in una
versione diversificata a
seguito della normativa sopravvenuta, nella quale va inclusa quella in esame,
nel senso che il
rapporto di cui il giudice amministrativo accerta la legittimità o è quello già
riflesso nell’atto
impugnato o è quello di cui il ricorrente pretende la trasfusione in un
successivo atto della p.a.,
mediante l’esecuzione del giudicato nel caso di perdurante inerzia della p.a..
7.9.3. Non appare decisivo nemmeno l’ostacolo derivante dalla mancanza di una
norma espressa
che preveda l’azione di accertamento nel processo amministrativo.
Come è stato efficacemente rilevato dalla dottrina che si è occupata del tema,
sotto questo profilo
ricorre nel processo amministrativo una situazione del tutto analoga a quella
del processo civile, nel
quale pure manca un esplicito riconoscimento normativo generale dell’azione di
accertamento
(specifiche azioni di accertamento sono previste nel codice civile solo per i
diritti reali).
Ciò nonostante, nel processo civile l’azione di accertamento è pacificamente
ammessa. A tale
pacifico riconoscimento dell’azione di accertamento nel giudizio civile si
giunge partendo dalla
premessa concettuale che il potere di accertamento del giudice sia connaturato
al concetto stesso di
giurisdizione, sicché si può dire che non sussista giurisdizione e potere
giurisdizionale se l’organo
decidente non possa quanto meno accertare quale sia il corretto assetto
giuridico di un determinato
rapporto.
L’azione di accertamento nel nostro ordinamento non è quindi un’azione “tipica”
(come lo è, ad
esempio, nel diritto processuale civile l’azione costitutiva ex art. 2908 c.c.),
in quanto non è
necessario un espresso riconoscimento normativo per ammetterne la vigenza.
L’ammissibilità di
tale azione discende di per sé dall’esistenza della giurisdizione che implica
appunto lo “ius dicere”.
Ad analoghe conclusioni può giungersi per il processo amministrativo: sulle orme
della dottrina
prima evocata, si può ritenere che anche nel processo amministrativo il potere
di accertamento del
giudice non possa essere limitato alle sole ipotesi tipiche specificamente
previste.
La tipicità dell’azione di annullamento era coerente con la visione originaria
del processo
amministrativo come un processo impostato sulla tutela degli interessi legittimi
oppositivi ai quali
corrispondeva una pretesa a un “non facere” in capo all’amministrazione, cioè un
dovere di
astensione dall’emanare il provvedimento restrittivo della sfera giuridica
dell’interessato. L’art. 45
del T.U. e l’art. 26, comma 2, della legge istitutiva dei Tar che individuano
come unico dispositivo
di accoglimento la sentenza di annullamento rispecchiavano perfettamente tale
visione.
Una siffatta visione non corrisponde più all’evoluzione legislativa e
giurisprudenziale che ha
attribuito rilevanza e pari dignità agli interessi legittimi pretensivi.
7.9.4. A favore dell’ammissibilità di una azione atipica di accertamento gioca
un ruolo decisivo
anche l’art. art. 24 della Costituzione.
Tale norma sancisce il diritto di azione per la tutela degli interessi legittimi
in sé considerati, e
dunque, indipendentemente dal problema dell’annullamento dell’atto
amministrativo. Viene così
costituzionalizzato il carattere strumentale del processo rispetto al diritto
sostanziale, in linea con la
nota formula dottrinale secondo cui il processo deve dare per quanto è possibile
praticamente a chi
ha un diritto tutto quelle e proprio quello ch’egli ha diritto di conseguire.
Ne deriva che anche per gli interessi legittimi la garanzia costituzionale
impone di riconoscere
l’esperibilità dell’azione di accertamento autonomo di questa posizione
sostanziale, almeno in tutti i
casi in cui, mancando il provvedimento da impugnare, una simile azione risulti
necessaria per la
soddisfazione concreta della pretesa sostanziale del ricorrente.
A tale risultato non può opporsi il principio di tipicità delle azioni, in
quanto, come è stato di
recente rilevato, uno dei corollari dell’effettività della tutela è anche il
principio della atipicità delle
forme di tutela, non diversamente da quello che accade nel processo civile.
E non vi è ragione di differenziare, in linea di principio, sotto il profilo
delle implicazioni che
possono trarsi dall’art. 24 della Costituzione, il processo amministrativo dal
processo civile,
soprattutto se si riconosce all’interesse legittimo, com’è ormai pacifico, una
rilevanza sostanziale
analoga a quella del diritto soggettivo.
Deve, allora, condividersi l’opinione di quanti sostengono che l’esigenza
dell’effettività della tutela
non può dirsi soddisfatta solo perché l’ordinamento consenta un rimedio
giurisdizionale qualsiasi al
diritto (o all’interesse) che si assume violato o insoddisfatto: occorre invece
che la tutela assicuri in
modo specifico l’attuazione della pretesa sostanziale. E sarebbe una tutela non
effettiva quella che,
sulla base di una aprioristica e indimostrata negazione dell’azione di
accertamento, costringesse il
terzo controinteressato rispetto all’attività edilizia iniziata sulla base della
d.i.a. a presentare una
istanza all’Amministrazione volta all’esercizio del c.d. potere di autotutela
per poi ricorrere, in caso
di mancata risposta, al giudizio contro il silenzio-rifiuto.
7.9.5. Né, in senso contrario, può assumere rilievo la considerazione, prima
ricordata, secondo cui
un giudizio di accertamento del rapporto comporrebbe una inammissibile
sostituzione
all’Amministrazione nella titolarità e nella gestione del potere.
L’azione di accertamento prospettata in questa sede non scaturisce, infatti,
dalla mera esigenza di
eliminare una incertezza sulla posizione giuridica sostanziale, ma dalla più
pregnante esigenza di
eliminare una lesione già in atto, determinata dalla difformità tra lo stato di
fatto e lo situazione di
diritto, a causa della già intrapresa realizzazione di un intervento edilizio
non consentito in base alle
semplice d.i.a.
Non si tratta, dunque, di una tutela preventiva dell’interesse legittimo del
terzo che sarebbe in
contrasto con il fatto che l’ordinamento ha attribuito all’Amministrazione la
gestione di determinati
rapporti. Si tratta, viceversa, di una tutela a posteriori, richiesta a seguito
della asserita lesione
dell’interesse legittimo del terzo contro interessato rispetto alla d.i.a.
7.10. Le considerazioni che precedono consentono di superare, sia pure con
motivazioni in parte
diverse rispetto al giudice di primo grado, le eccezioni di inammissibilità del
ricorso originario
riproposte in appello dal Comune di Verona e dalle signore Scudellari Graziella
e Lucchi Renata.
Ed invero, anche se deve escludersi il ricorso volto ad ottenere l’annullamento
della d.i.a., non vi
sono ostacoli ad ammettere una azione diretta ad ottenere l’accertamento, da
parte del Giudice
amministrativo, dell’inesistenza dei presupposti per intraprendere l’attività in
base alla d.i.a.
medesima.
Poiché le originarie ricorrenti hanno proposto anche tale domanda di
accertamento, l’eccezione di
inammissibilità in relazione a questa parte del ricorso deve essere respinta.
7.11. Appurata l’ammissibilità anche nel giudizio amministrativo di una azione
di accertamento
atipica, occorre ora, al fine di decidere sull’eccezione di tardività pure
riproposta dagli odierni
appellanti, delineare con maggiore dettaglio il regime giuridico di tale azione.
Anche a tal fine, si deve muovere dalla premessa concettuale secondo cui, il
terzo che si ritenga leso
da una attività svolta sulla base di una d.i.a. deve avere, in linea di
principio, le stesse possibilità di
tutela che avrebbe avuto a fronte di un provvedimento di autorizzazione
rilasciato dalla P.A.
Da ciò discende, ad avviso del Collegio, che l’azione di accertamento in tal
caso sarà sottoposta allo
stesso termine di decadenza (di sessanta giorni) previsto per l’azione di
annullamento che il terzo
avrebbe potuto esperire se l’Amministrazione avesse adottato un permesso di
costruire. Non si
ritiene applicabile un diverso termine di natura prescrizionale in quanto
l’azione, ancorché di
accertamento, non è diretta alla tutela di un diritto soggettivo, ma di un
interesse legittimo.
7.12. Quanto alla decorrenza di tale termine, è utile richiamare la
giurisprudenza amministrativa in
merito al dies a quo per impugnare la concessione edilizia (ora permesso di
costruire).
Secondo la tesi tradizionale, al fine della decorrenza del termine per
l'impugnazione di una
concessione edilizia rilasciata a terzi, l’effettiva conoscenza dell'atto si ha
quando la costruzione
realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche
dell’opera e l'eventuale non
conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica, sicché, in
mancanza di altri ed
inequivoci elementi probatori, il termine decorre non con il mero inizio dei
lavori, bensì con il loro
completamento, a meno che non si deducano l'assoluta inedificabilità dell'area o
analoghe censure,
nel qual caso risulta sufficiente la conoscenza dell'iniziativa in corso
(Consiglio Stato , sez. IV, 8
luglio 2002 , n. 3805).
7.12.1. Mutatis mutandis, deve, allora, ritenersi che il termine decadenziale
per proporre l’azione di
accertamento oggetto del presente giudizio sia iniziato a decorrere solo dal
momento in cui le
originarie ricorrenti sono venute a conoscenza della d.i.a. e della lesività
dell'intervento edilizio
realizzato sulla base della stessa.
Non assume, pertanto, valore decisivo la circostanza, dedotta dal Comune di
Verona, che le
ricorrenti fossero a conoscenza del progetto presentato dalle signore Scudellari
e Lucchi ben oltre i
sessanta giorni antecedenti, perché ciò che rileva, come correttamente osserva
il T.a.r., non è la
conoscenza del progetto, ma la conoscenza del titolo sulla cui base l’intervento
è realizzato.
Né il dies a quo può essere fatto coincidere con la data in cui i lavori hanno
avuto inizio, in quanto,
come la giurisprudenza ha già specificato per l’impugnazione dei titoli
abilitativi edilizi, il termine
inizia a decorrere quando la costruzione realizzata rivela in modo certo ed
univoco le essenziali
caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità della stessa al titolo o
alla disciplina
urbanistica, sicché, in mancanza di altri ed inequivoci elementi probatori, il
termine decorre non con
il mero inizio dei lavori, bensì con il loro completamento.
L’eccezione di tardività va, pertanto, respinta.
8. Gli appelli, sia il principale che l’incidentale, devono essere, invece,
accolti nel merito.
8.1. Gli interventi realizzati dalle signore Scudellari e Lucchi Renata
consistono nella realizzazione
di posti auto, cancello carraio ed ingresso pedonale.
Si tratta di opere edilizie che rientrano tra quelle assoggettate a d.i.a.,
senza che possa assumere
rilevanza la circostanza, valorizzata invece dal T.a.r., che si trattava “di
interventi di rilevanti entità
e tali comunque da alterare in modo sensibile il territorio”.
Giova, al riguardo, precisare che i “due bastioni di cemento armato”, cui fa
riferimento l’odierna
appellata, erano in realtà rappresentati dal muro di recinzione e non
costituivano, quindi una nuova
costruzione soggetto alle distanze minime tra edifici. I parcheggi, ottenuti a
raso, non coperti, non
necessitano, quindi, del permesso di costruire.
8.2. In ordine al nulla osta paesaggistico ambientale, il Collegio rileva che il
provvedimento sia
adeguatamente motivato: trattandosi di parere positivo, è, infatti, sufficiente
anche una motivazione
succinta che dia atto dell’assenza di motivi che contrastino con i beni
sottoposto a vincolo.
8.3. Infondati sono anche gli altri motivi del ricorso di primo grado, non
esaminati dal T.a.r. e
riproposti, sia pure non esplicitamente, in appello.
In particolare, le originarie ricorrenti lamentavano la violazione delle norme
in materia di
legittimazione a richiedere il titolo abilitativo o comunque ad effettuare opere
edilizie.
Il motivo è infondato.
Come questo Consiglio ha già avuto modo di rilevare, è facoltà del singolo
condomino eseguire
opere che, ancorché incidano su parti comuni dell'edificio, siano strettamente
pertinenti alla sua
unità immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale, con la conseguenza che
egli va considerato
come soggetto avente titolo per ottenere a nome proprio l'autorizzazione o la
concessione edilizia
relativamente a tali opere (Cons. Stato, sez. Consiglio Stato , sez. V, 9
novembre 1998 , n. 1583).
Va inoltre osservato che ove la realizzazione di opere in attuazione di una
d.i.a. interessino anche il
condominio, il mancato assenso di quest'ultimo, la cui porzione immobiliare
inerisce, concerne
esclusivamente tematiche privatistiche, cui resta estranea l'Amministrazione
(T.A.R. Veneto, sez. II,
2 luglio 2007 , n. 2139).
9. Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello principale proposto
dal Comune di
Verona e l’appello incidentale proposto dalle signore Scudellari Graziella e
Lucchi Renata debbono
essere accolti; per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, il ricorso
di primo grado va respinto.
La complessità delle questioni esaminate giustificano la compensazione integrale
delle spese di
giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente
pronunciando, accoglie
l’appello principale e l’appello incidentale; per l’effetto, in riforma della
sentenza impugnata,
respinge il ricorso proposto in primo grado.
Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio del 25 novembre 2008 con
l’intervento dei Sigg.ri:
Claudio Varrone - Presidente
Paolo Buonvino - Consigliere
Aldo Scola - Consigliere
Roberto Garofoli - Consigliere
Roberto Giovagnoli - Consigliere Est. e Rel.